Fatti, personaggi e luoghi che appaiono in questo libro
sono di pura fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti
o esistite e a fatti reali è da ritenersi puramente casuale.
Racconti autoBIOgrafici
Ogni vita umana è unica e irripetibile e come tale memorabile, da ricordare.
E dato che questo vale anche per la mia vita, ho deciso di raccontare alcuni episodi che ricordo con molto piacere. Brevi storie ordinarie che diventano straordinarie perché vissute intensamente e impreziosite da incontri ed esperienze che conservo ancora nel mio cuore.
Ricordi scolastici e lavorativi, vacanze indimenticabili, famiglia e amici, un pizzico di ironia et voilà, pronta la mia autobiografia… a puntate!
“Chi ben comincia” fa da cornice agli altri racconti di questa sezione, una serie di prime volte: il primo giorno di lavoro, la prima vacanza con Claudio, una delle prime trasferte all’estero. Sono storie che risalgono agli anni giovanili e che risentono dell’assenza di quelle preoccupazioni che sono tipiche dei genitori, cioè quelle con cui convivo adesso.
Per leggere le avventure più recenti, invece, avete due possibilità: aspettare pazientemente la prossima raccolta oppure seguirmi su Facebook.
Cascate di… imprevisti
Giugno 1991. Assunta da poco in una grande azienda di telecomunicazioni e subito spedita oltre oceano, in compagnia di cinque colleghi, a Columbus, Ohio. Obiettivo della trasferta: frequentare corsi di formazione e partecipare a riunioni di progettazione e test. Così, da lunedì a venerdì, realizzavamo la parte seria del nostro soggiorno americano. Sabato e domenica, invece, eravamo liberi di fare i turisti.
“Che ne dite se questo fine settimana andiamo alle Cascate del Niagara?”
La proposta di Laura piacque al gruppo. Partimmo di venerdì, nel tardo pomeriggio. Il programma prevedeva di fermarsi a dormire a Buffalo, vicino alla meta, e di utilizzare i due giorni successivi per le Cascate e la visita di Toronto, poco distante da lì.
Il viaggio fu alquanto noioso, nonostante le chiacchiere informali e l’autoradio sintonizzata su musica country anni ‘60. La nostra resistenza fu messa a dura prova da limiti di velocità molto bassi e strade rettilinee a sei corsie che tagliavano immensi campi di mais, con fattorie e villaggi Amish a fare da sporadico diversivo nel monotono panorama circostante. La vera sfida era non addormentarsi!
Dopo un tempo interminabile e almeno sei cambi alla guida – scusa buona per fare il punto con l’equipaggio dell’altra auto – arrivammo a Buffalo e iniziammo la ricerca di un albergo. Al primo tentativo ci offrirono le ultime due camere triple, ma essendo quattro donne e due uomini, rifiutammo. Mal ce ne incolse. Eppure noi ragazze avremmo saputo tenere a bada Alberto e Marco per una notte!
Ripartimmo. Gli altri numerosi tentativi in città diedero la medesima risposta: tutto occupato.
L’ennesimo rifiuto fu accompagnato anche da una spiegazione: a Buffalo, in quel weekend, c’era una fiera di non-so-bene-cosa, molto nota. Avremmo dovuto saperlo, secondo loro.
A quel punto, rassegnati di non trovare posto per dormire, ci fermammo a mangiare qualcosa.
Superate con fatica le recriminazioni su chi era colpevole di aver rifiutato le uniche stanze libere in tutta Buffalo, decidemmo di cercare posto fuori città.
Dopo cena rientrammo in autostrada e cominciammo a perlustrare le piccole cittadine in corrispondenza delle varie uscite. La stanchezza cominciava a farsi sentire e dopo un’ora di tentativi ci rendemmo conto di aver percorso la stessa strada almeno due volte. Anche il casellante ci aveva riconosciuto – eravamo gli unici in circolazione a quell’ora! – e si era sentito libero di prenderci in giro.
Pagammo nuovamente il pedaggio e, dopo qualche metro, Alberto fermò l’auto sulla corsia di emergenza. Ci guardammo in faccia e scoppiammo a ridere. La situazione era talmente incredibile che non si poteva far altro che prenderla con ironia.
“Ultimo tentativo” gli dissi indicando alcune luci lontane. “Altrimenti dormiamo in macchina.”
Le luci rivelarono la presenza di un motel, un edificio a un piano, lungo e stretto, su cui si aprivano una decina di porte. Sorgeva in un luogo che era quanto di più desolato potessimo immaginare, una sorta di deserto in cui rotolavano cespugli di arbusti ormai secchi. Se non fosse stato così buio, avremmo sicuramente visto il cowboy solitario protagonista dei film di Sergio Leone.
Parcheggiammo e ci guardammo intorno, perplessi. Nessuno ebbe il coraggio di rompere il silenzio.
Entrammo nella saletta che si vantava di essere la reception dell’albergo e chiedemmo tre stanze.
Purtroppo erano disponibili.
Il titolare, un uomo trasandato che aveva indugiato in pasti troppo calorici, prese le chiavi e ci accompagnò alle nostre camere.
Si fermò davanti alla numero 3, che avrei diviso con Laura, e infilò la chiave nella serratura. La porta di legno che doveva proteggerci per il resto della notte, mi fece venire in mente quella della capanna del porcellino Tommy. Qualunque lupo, al massimo con una spallata, l’avrebbe buttata giù.
Sopra la porta c’era una plafoniera che illuminava con fatica lo spazio circostante, ricoperta com’era da fitte ragnatele e da una gran quantità di falene e altri insetti non ben identificati.
L’uomo aprì la porta e accese la luce all’interno. In quell’istante tutto il bestiario, che si stava scaldando al calore della lampada esterna, ci precedette in camera e andò a distribuirsi sulle pareti e sui mobili.
La porta si richiuse alle nostre spalle, accompagnata dalla buonanotte dei colleghi a cui sarebbe toccata sorte analoga.
[continua]