...sentiva freddo

di

Christian Caldato


Christian Caldato - ...sentiva freddo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 72 - Euro 8,80
ISBN 88-6037-093-0

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore

In copertina fotografia di Christian Caldato


Presentazione

“Ho passato la vita a cercare l’amore. In ogni angolo sperduto, in ogni bar affollato, accontentandomi di volta in volta di quello che amore non era, e quando esausto ho rinunciato, lui è venuto a cercarmi, a bussare alla mia porta, in un modo tanto assurdo quanto celere, e con le sue ali mi ha fatto volare. Tutti gli sforzi di una vita si sono compensati in un fuggevole attimo, e il resto sarebbe bastato a riempire l’immenso nell’infinità del tempo.”


Ringraziamenti

Questa volta voglio fare le cose a modo mio. Fino in fondo…
Voglio ringraziarvi tutti… e vorrei farlo uno per uno… in un modo che sconfigga il tempo… per non dimenticare che ogni giorno vi vorrei tutti nella mia vita, chi c‘è ancora, e chi per volontà divina o per mia incapacità, si è perso lungo il cammino.
È questo il mio modo di dirvi grazie. Questo libro. Perché ogni parola scritta parla di voi. Ogni sensazione che mi rimane addosso parla di voi. Ogni pensiero che affolla la mia mente parla di voi. Molto più di quanto non lo immaginiate. Voi siete la mia ancora di salvezza, la mia fonte di ispirazione, il mio coraggio, e la mia perdizione. Il mio sogno e la mia realtà.
Siete le stelle della notte, oltre la quale ci spingeremo, perdendoci da soli, aspettando il domani.
Siete ciò che rende bella la vita.
Non avrei potuto e non posso chiedere di più.
Niente è più di voi.
Niente è più di noi.
Grazie.


...sentiva freddo


•a te•

Questi occhi lucidi, che accompagnano un urlo destinato al cielo, in cerca di una labile certezza e di una sorda risposta, non mi permetteranno mai di tenerti ancora una volta tra le braccia. Ma non importa. Io me ne starò qui, con tutta la rabbia in corpo a ricordare…

Ricordo una preghiera…
“ti prego… non puoi rovinare un angelo, una tua creatura… una delle tue creature migliori… forse troppo… io non credo, non credo di credere… perché non ti capisco, non capisco dove sei quando tutto questo succede, non capisco perché tutto questo succede e non capisco perché lei… ma non importa se una preghiera può veramente salvare una vita, una vita che per me può voler dire molto, sono pronto a mettere da parte i miei dubbi, me stesso… ma ti scongiuro… non lasciare spegnere una fiamma che potrebbe essere il più bel fuoco dalla notte dei tempi… ci spero veramente… grazie Dio…”

Ricordo la sua risposta…

Ricordo però che se sono nel mio lago di dolore adesso, è solo perché tu sei sempre stata la mia speranza… perché tu con tutti i tuoi problemi non cadevi… e se lo facevi ti rialzavi… e ti trascinavi tutto il tuo mondo… e con lui tutti noi… ce l’hai sempre fatta… sei sempre stata all’altezza di tutto… eri e sei un passo avanti di noi…
Ti tengo sempre in testa… lì in alto, come una stella, ad illuminarmi la via quando l’oscurità avanza… il mio perenne punto di riferimento, la mia stella.
Cazzo se ti voglio bene… non capisco perché... dovresti essere qui seduta di fianco a noi… perché tutti lo sappiamo che te lo meriteresti… tutti lo vogliamo… ma lì in alto rivolevano il loro angelo a casa… senza di te è tutto più difficile… per te e per Dio… ma noi ti abbiamo ancora… perché una persona come te lascia il segno… e non si dimentica…
Grazie per sempre piccola Pam…

Stanotte c‘è una luna assurda…
illumina il cielo, irradia le stelle…
i barlumi di luce sbucano da dietro il nulla
a insegnarti che non importa cosa ti dice la razionalità...
prima o poi ci sarà qualcosa che ti stupirà...

Mukiki


Capitolo 1

Mi sentivo bizzarro, infante e lievemente eccitato quando sentii il peso della corda ben salda attorno al collo. Il ramo sembrava ancora resistente. E chissà quanto peso avrebbe potuto ancora sopportare. La pioggia iniziava a infastidirmi. E il senso di dovere, misto obbligo nel rispetto della vita che abbandonavo, mi faceva ancora sperare che l’apice spirituale dovesse corrispondere con la fine della mia storia e non con l’inizio di una curva destinata a sciogliersi e a consumarsi impassibile come una cometa.
Mi bastava un passo per mettere fine a tutto. Non era di sicuro la prima volta. Non sapevo se poteva essere l’ultima. Aver la sensazione di tener sotto controllo la mia vita mi portava ad andare avanti. Nonostante tutto. Ma questo treno non aveva intenzione di lasciarmi una vita di tempo per riprendermi e costantemente continuava a buttarmi al tappeto. Ogni volta così.
“Esausto, frastornato e basito mi rialzerò sperando che il mondo si sia preso gioco di me, che abbia giocato con i miei sentimenti, che abbia ambito le mie delusioni… e nel pieno della mia ultima brama vanificata, la frustrazione regnerà sovrana imperterrita fino al mio ultimo istante di vita, suffragata da questa sensazione di disagio che ti spinge a cambiare opinione sul mondo e sulle cose che ti circondano, aiutata da uno spirito infame e sconsiderato che monitora il tuo senso di colpa e ti trascina nell’oblio eterno… sospinto da un’ignoranza brillante che t’impedisce di vivere una vita sensata naufragando nella stupidità e nella dissolutezza più assoluta…”. La voce tremava.
L’avevo sempre immaginato al bordo di un tetto. Vicino ad una grondaia pericolante, che mi avrebbe giocato un brutto scherzo se avessi di colpo cambiato idea. Sì... nella mia mente avevo più volte visualizzato questo istante. Mi vedevo torreggiante su tutto, a scaraventare un urlo di liberazione in faccia a Dio. Ora che lo stavo vivendo non era esattamente così.

Un rumore sordo. Uno sterminio di secondi di pura sofferenza. La vista annebbiata. L’intorpidimento di mani e gambe. Un ultimo sforzo per far scivolare fuori dai jeans un foglio. La testa costretta a fissare verso il cielo, alimentando una speranza irrazionale. Il tempo necessario ad un ultimo dubbio d’incunearsi nell’ultima attività mnemonica concessa. “Chissà se è la stagione giusta per morire?! Chissà se…”. Una voglia di gridare soffocata. E poi più nulla.
Gli alberi continuarono a muoversi a ritmo del delicato soffio di vento. Il fiume passivo rotolava verso il tanto atteso mare. Un cane di piccola taglia si appostò, seduto, a seguire lo spettacolo. E il resto del mondo se ne stava a fissare a braccia conserte.


Capitolo 2

Sentiva freddo. Era uscito solo da cinque minuti, ma il tepore se n’era andato immediatamente sotto lo scroscio incessante dell’acqua. Neanche un berretto di lana e un impermeabile riuscivano a dargli un mite conforto.
Teneva la borsa stretta alla vita, con entrambe le braccia, avvinghiata. Aveva paura.
Una goccia s’incuneò sul collo, sotto la giacca. La sensazione di vulnerabilità ricoprì tutto il corpo, mentre lemme lemme la stessa goccia scendeva lungo la schiena.
Era da più di una settimana che quell’idea gli balenava in testa. Doveva solo trovare il momento giusto. E quello aveva tutta l’aria di non esserlo.

Si sentiva gli occhi fissi addosso. Ogni singolo sguardo pareva accusatore. Il respiro si faceva sempre più rarefatto. Per la corsa, per la tensione, per la pioggia, per quegli sguardi. Decise di fermarsi, a respirare per convincersi che non c’era alcun motivo di preoccuparsi. Non ancora almeno.
Lo sguardo era fisso, cinque metri più in là. Su quel muro bianco. Sulla scritta in nero di quel muro bianco. Era cominciato tutto da lì, la settimana precedente. Da una di quelle serate fallite dall’inizio. Uno di quei giorni che ti inducono ad accettare che la reclusione forzata, in completa solitudine, potrebbe solo giovare all’umore, perché l’irascibilità ha deciso di far capolino ogni volta che stabilisci un rapporto tra bocca e cervello. E come un’inaspettata meraviglia, la sensazione di impotenza nei confronti della chimera del destino, ti lascia allibito, illuso e carico. Carico di frenesia, di entusiasmo, pieno di voglia di ricominciare dallo stesso punto che dieci minuti prima avevi battezzato “fine”.
L’insistenza della pioggia lo irritava. Ma rimase con gli occhi sbarrati e un’espressione da perfetto imbecille fradicio, a fissare il muro. Era invidioso. Geloso della spensieratezza dell’autore di quella frase. Ammorbato dalla fortuna che colpisce sempre l’erba del vicino. Ma nel contempo quelle parole gli suggerivano, che il fato gli dovesse qualcosa. O qualcuno.

“Ho passato la vita a cercare l’amore. In ogni angolo sperduto, in ogni bar affollato, accontentandomi di volta in volta di quello che amore non era, e quando esausto ho rinunciato, lui è venuto a cercarmi, a bussare alla mia porta, in un modo tanto assurdo quanto celere, e con le sue ali mi ha fatto volare. Tutti gli sforzi di una vita si sono compensati in un fuggevole attimo, e il resto sarebbe bastato a riempire l’immenso nell’infinità del tempo.”.


Capitolo 3

Non le importava se di rimbalzo l’acqua avrebbe bagnato il muro. Il parquet. Il termosifone. Non le interessava se la pioggia sabbiosa avrebbe sporcato tutte le finestre. Sentiva il bisogno il fissare la repentinità delle gocce. Quella armonica sequenza casuale. Sentiva la necessità di tenere la finestra leggermente aperta. Così l’aria fredda poteva entrare. E il termosifone, col suo calore, poteva darle un leggero sollievo. Sollievo che cercava da tempo. Spiegazioni che ambiva da settimane. Da quando tutti quei dubbi le erano penetrati in testa, lasciando lavorare ininterrottamente quel fastidiosissimo cervello.
I Magmatonica continuavano a cantare indifferenti “Per non pensarti più”. Bizzarra coincidenza. Era proprio quello di cui aveva bisogno. Era tutto ciò che avrebbe voluto fare quella sera.
“...non pensare… ecco cosa vorrei fare in queste sere… vorrei evitare di scervellarmi… vorrei evitare di cacciarmi idee in testa, di pensare fino allo stremo, fino alla tristezza… e piango… perché non voglio andare avanti così... ma se per stasera riuscissi almeno a non pensare…
Questa notte non ho sonno… fortuna… tanto questo pensiero mi avrebbe tenuta sveglia comunque…”
Lo sguardo si appoggiava regolarmente sul cellulare, sdraiato di fianco alla televisione accesa, sintonizzata in un’inutile fiction, con il volume al minimo. L’orologio indicava le dieci e trentasette.
Il cd era terminato. Gli occhi erano ancora lucidi quando decise di dare ascolto nuovamente a quel cd. Le era entrato in testa. Si trovava il motivo tra le labbra la mattina in un qualsiasi momento di relax. Peccato solo che la quiete ostentasse ad arrivare. Si allungò, rimanendo tuttavia distesa nel suo letto a due piazze. Raggiunse il telecomando. E il telefonino. Scorse la rubrica. Premette Play. Trovò “Keith” e lo chiamò. Il suono della chitarra e della batteria si facevano sempre più intensi e decisi. All’orecchio però arrivava solo il suono della linea libera. Il telefono continuò a squillare. Per altre due volte l’unica risposta fu la voce cortese della Vodafone che avvertiva dell’inserimento della segreteria telefonica. Riattaccò. Compose un numero a memoria e finalmente all’altro capo del telefono rispose una voce. Zoe.
“Ascolta… non ce la faccio più... ho bisogno di parlare un po’ di sfogarmi… ho bisogno di qualcuno che mi ascolti… non ce la faccio proprio più... Posso passare da te tra dieci minuti?!”.
Le bastò un semplice “sì” per farla balzare in piedi. In fretta e furia si vestì. Prese il primo paio di pantaloni dall’armadio. Un maglioncino leggero e un giubbetto rosso. Corse giù dalle scale gridando “Mamma esco!”.
Neanche il tempo di sentire il solito “torna presto” che la porta si richiuse dietro le sue spalle con un sonoro fragore.


Capitolo 4

Finalmente la calma aveva avuto il sopravvento sulla paura. Ci stava riflettendo. Ancora una volta. Aveva voglia di gridare al mondo come si sentiva. Aveva voglia di urlare il suo stupore e il suo sgomento di fronte alla passività delle persone. Di fronte all’indifferenza del mondo. Ma aveva paura di non essere ascoltato. Aveva paura di essere giudicato. Non sopportava l’idea di sentirsi il dito puntato contro. Lo stesso pensiero doveva averlo fatto suo padre. Forse il suo ultimo pensiero. E non era stato in grado di affrontarlo. Non era riuscito a sfogarsi, non ce l’aveva fatta a andare avanti per l’ennesima volta. Ma aveva deciso di dire un’ultima cosa. E finalmente l’aveva detta a modo suo.
“È una di quelle sere.
Una di quelle in cui mi sento uno dei tanti. Apatica, inutile. Una di quelle giornate che mi passano tra le mani apparentemente senza senso, come la sabbia nella clessidra. Passa il tempo e mi logora, e non lascia niente. Il solito fiume, che da anni non si stanca di far scorrere l’acqua in quel letto ghiaioso, dove la limpidezza sembra irreale, per un mondo così. Ancora un angolo di tranquillità, dove ripararsi, rallentare o addirittura fermarsi, quando il mondo ti crolla addosso.
Non ci sono riuscito. Ho fallito. Miseramente. E quel che è peggio ho perso la mia voglia di vivere.
Sotto questo cielo, che ha visto miliardi di occhi lustri alzarsi al cielo a chiedere comprensione. All’ombra di quest’albero, che ha riso e si è beffeggiato della potenza e dell’assurdità della mente umana, della sua originalità e della sua debolezza. Dentro la mia mente, che con la demenza di un incosciente, continua a elaborare ogni singolo dettaglio, conscia del fatto che questi particolari non mi faranno compiere l’errore di molti. Nel bel mezzo di questa società che non accetta, e non s’accorge dei cambiamenti. Ai bordi di questo fiume, dove per la prima volta ho incrociato quel tuo sguardo soave, che mi ha incantato, illuso e disilluso, ferito, guarito e infine ucciso. Nel pieno del mio trentasettesimo anno, in questa terra che delude, tradisce le speranze e offusca i sogni. E alla fine del mio sogno, dove non ci sarà il risveglio ansimante, ma un sonno impalpabile e profondo, che finalmente mi permetterà di assaporare l’eternità, per un istante, mai, per sempre.
Non importa, ora no. Non serve più capire, non serve cercare domande senza risposta, non serve spremere le meningi per arrivare a una soluzione. Dietro di me il passato, un’occhiata al presente e di fronte a me chissà.”
Sapeva questo della morte suo padre. Un ramo. Una corda. Un foglio sincero scritto di getto. Una consapevolezza che non avrebbe più saputo. E gli articoli dei giornali. In casa non ne parlavano mai. Aveva l’aria di assomigliargli però. Come modi di fare. Come carattere. Come pensieri. Era questo che gli dava la sensazione di dover continuare quel qualcosa che l’incoscienza di suo padre aveva iniziato.

Si avvicinò al muro respirando profondamente. Aprì lo zaino e tirò fuori un foglio. Era dentro una busta di plastica trasparente, per evitare che il contatto con l’acqua rovinasse la stampa e la rendesse illeggibile. Utilizzò un chiodo già conficcato e arrugginito per appendere la busta. Sentì un rumore di passi. Doveva sbrigarsi. Il cuore riprese ad aumentare la sua corsa. L’adrenalina tornò a correre nelle vene. Il rumore dei passi si faceva sempre più insistente. La plastica sembrò opporre un’insolita resistenza. Girò la testa verso i passi e iniziò a correre nella direzione opposta. Urtò un portaombrelli proprio di fronte all’ingresso del bar e rovesciò tutti gli ombrelli per terra. Si fermò incerto sul da farsi e decise di nascondersi nel lato opposto della strada, nella penombra all’inizio della via. Era attaccato al muro, in punta dei piedi. Cercava di trattenere il respiro, inconsciamente convinto che avrebbe potuto aiutarlo a non essere scoperto.
“Che stupido!” si disse tra sé e sé.
“Potevo almeno improvvisare qualcosa. Simulare di essere lì per un motivo. Anche entrare nel bar sarebbe andato di lusso”.
Ormai era tardi. I passi arrivarono e lui continuava a rimanere adesso al muro, con gli occhi semiaperti e il mento rivolto verso il tetto dell’edificio di fronte.
Intravide la sagoma. A dire il vero vide i capelli lunghi bagnati che le scendevano sul viso, e il giubbetto rosso. Poco altro. Ma nonostante la sua irruente camminata, sentì il peso dei suoi occhi posarsi per un istante sulla sua inerme sensazione d’impotenza.
Ci fu un attimo di silenzio dentro di se. Una pausa. Una lunga pausa.
Poteva averlo visto. E questo avrebbe rovinato il suo tentativo di restare nell’anonimato. Ormai quel rischio andava corso. Decise sul da farsi. Prese la strada da dove era arrivata la ragazza e iniziò a spargere le buste nei punti esatti in cui doveva essere passata. Prese in considerazione anche delle laterali successive. Tornò sui suoi passi. Lasciò il muro sulla sua sinistra e proseguì, con l’intento di spargere le frasi per almeno un altro quarto d’ora a passo d’uomo nella direzione opposta. La strada era solitaria. Solo un cucciolo faceva compagnia al buio. Uscì una persona dal bar. Un ragazzo. Imprecò quando vide gli ombrelli rovesciati per terra. Cercò il suo. Si chinò e lo aprì. Vide una busta di plastica. Si avvicinò e la raccolse. Keigan controllava il tutto a debita distanza. Non riuscì però a definire l’emozione che lo investì. Capì solo che doveva essere un’azione ragionata. Come un fulmine a ciel sereno, la paura ci coglie di sprovvista. E come in tutte le cose, il caos aveva prevalso… ancora una volta.


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine