I sentieri del cuore

di

Chiara Politini


Chiara Politini - I sentieri del cuore
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 48 - Euro 7,50
ISBN 978-88-6587-6213

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In copertina fotografia dell’autrice


Questa raccolta è un viaggio, interiore e fisico, nel quale s’incontrano persone reali dai cuori speciali, v’invito a farvi trasportare con me dal vento mattutino che prelude a futuri lieti, porta via le nuvole e lascia in attesa di un divenire tutto da costruire, immergetevi nelle storie, diverse tra loro ma legate da fili sottilissimi e, vi ritroverete cambiati, nuovi ed ancora da scrivere, leggete con la curiosità dei bambini e la saggezza degli anziani… buon viaggio, vi aspetto all’arrivo.

l’autrice


I sentieri del cuore


DESTINI

Sono nato cane. Non che l’abbia deciso io, ma è capitato così. Certo avrei voluto nascere uomo, magari bello, magari ricco, intelligente non so, ma bello e ricco certamente. Invece sono nato cane, e per giunta bastardo. Quando gli uomini si vogliono offendere si danno del bastardo, se lo dicono con disprezzo, io sono bastardo per nascita, non per essermi comportato male.
Non so chi sia mio padre. Ho conosciuto invece mia madre, era molto magra, vivevamo in campagna. Lei era magra per fame, non per sentirsi più bella, come capita alle umane, che se si vedono qualche chilo in più, smettono subito di mangiare. Lei avrebbe voluto mangiare, ma non poteva.
Sono nato in inverno, ricordo il freddo pungente della notte. Credo di aver avuto dei fratelli e delle sorelle, ma sono ricordi molto sfocati e poco certi. Così come non ricordo il luogo. Era duro e freddo. Mia madre si stendeva a terra per nutrirci, e noi consumavamo avidamente quel poco che aveva da offrirci. Poi ci lasciava e cercava qualcosa per sé. Se non mangiava lei, non mangiavamo neanche noi. Talvolta quando la vedevo allontanarsi per cercare un po’ di cibo sulla strada grigia che vedevo in lontananza mi prendeva una paura, il terrore di non vederla più tornare, ed allora cominciavo a tremare, un po’ per il freddo, un po’ per la tristezza. Cosa avrei potuto fare senza di lei? Mi stringevo ai miei fratelli, e rimanevamo fermi fin quando non la vedevamo tornare. Lei ci annusava, ci controllava, si stendeva e ci offriva quel che poteva. La strada era un luogo pericoloso, sfrecciavano macchine e camion, di notte e di giorno, facevano un rumore forte, e scuotevano l’aria ed i nostri corpi quando ci sfioravano correndo. Ben presto decise di portarci con lei, eravamo cresciuti e dovevamo imparare la prima legge della vita, quella della sopravvivenza. La conoscete vero? È molto semplice e si impara subito. Nei casi più gravi si traduce con mors tua vita mea. All’inizio con i miei fratelli giocavo, mi rotolavo per terra, ci mordevamo scherzando, ma poi incominciammo ad essere meno amici, a guardarci talvolta in cagnesco, come dite voi che avete inventato questa parola, come se la cattiveria fosse una prerogativa tutta nostra… Ma non era per cattiveria, era solo per difesa. Avevamo imparato bene la prima regola essenziale. Certo, era la vita che ci faceva essere così, non il desiderio di dominare come spesso accade tra voi… E ci facevamo versi strani, ogni verso un significato diverso e preciso. Voi avete il dono della parola, ma è strano che talvolta non riusciate a capirvi con quel ricco vocabolario di termini che avete potuto inventare.
Eravamo tre, tre cuccioli ed una mamma, tutti bastardi e tutti magri. Ma non eravamo alla moda. I cani alla moda sono quelli profumati, con il pelo morbido, che dormono su un cuscino, che hanno il pedigree, attestato di purezza e di fortuna. Mia madre camminava davanti, ci fermavamo sul ciglio della strada cercando di andare dall’altra parte, dove avremmo potuto trovare del cibo, perché lì c’erano le case degli uomini. Gli uomini buttano un sacco di roba. Qualche volta lasciavano un piattino per noi e noi ci saltavamo dentro sporcandoci il muso e le zampette. Altre volte trovavamo dei sacchetti abbandonati e dovevamo romperli e selezionarne il contenuto. Tra bottiglie, pannolini, e cose vecchie spesso trovavamo qualche avanzo. Ma se gli uomini ci sorprendevano a rompere le buste e sparpagliarne il contenuto erano guai, dovevamo scappare ed abbandonare tutto quanto. Poi rimanemmo in due. Mia sorella non si accorse di un camion che stava arrivando. Mia madre fece un verso strano, un guaito lungo, ma poi ci spinse via, e scappammo lontano. Dio che colpo che fu!
Un giorno in campagna incontrammo una famiglia che faceva un picnic. Ci dettero tante cose da mangiare, e persino un nome, bello e dolce, i bambini giocavano con noi lanciandoci la palla e dei bastoncini. Diventammo quasi amici. Ma poi dovettero andar via. La bambina piangeva, “Non capivo bene”, diceva. “Ci penserò io, mamma te lo prometto, sono grande” ma il papà la spinse in macchina dicendo: “Non è proprio possibile… se abitassimo in villa, forse…” Non li vidi mai più. Credo di aver perso la più grande occasione della mia vita quel giorno. Quando arrivò l’estate, ero ormai cresciuto. Non so se preferisco l’estate all’inverno. Avevo sempre sete ora, e camminavo sotto al sole cocente con la lingua di fuori. La sete è più amara della fame, non pioveva mai, a nessuno veniva in mente di lasciare una ciotola d’acqua. E poi mi sentivo addosso in mezzo al pelo uno strano prurito, ospiti che camminavano avanti e dietro sul mio corpo e che certo non avevo invitato io… Che stanchezza! Chi decide cosa devi nascere e dove devi nascere? Ero rimasto solo. Un giorno mio fratello si mise a litigare con un altro cane, litigavano per mia madre si mordevano, si graffiavano e rimase per terra, in una pozza di sangue in attesa di soccorsi che non arrivarono mai. E mia madre un bel giorno sparì. La vidi correre veloce per sfuggire al lancio delle pietre di un gruppo di ragazzi che ridevano forte e facevano scommesse. Non tornò più.
Adesso sono vecchio e stanco. Ho conosciuto il mondo e gli uomini, la fame e la sete, il caldo ed il freddo, ma anche la gratitudine e la cattiveria. So molte cose, anche se voi non lo sapete e credete che abbia solo istinto. Non è vero. Io sento, io capisco. Siete voi quelli che non sempre capite, eppure siete uomini, e per quanto progrediti ed intelligenti spesso vi comportate come la razza meno evoluta. Vi offendete chiamandovi animali. Non so chi sia meglio e più fortunato tra noi. Perché voi potete fare ma non fate, potete pensare ma non pensate, lasciate morire i vostri simili, distruggete il vostro mondo, oramai inquinato e sporco, sapete parlare ma usate lingue diverse e parole a vanvera, siete ricchi ma infinitamente poveri… mi fermo, altrimenti potreste pensare che sia un essere cattivo e malvagio, non lo sono, cerco affetto e offro affetto, ma non ho il pedigree, sono vecchio, puzzo, ho i vermi dentro e fuori, e non so perché. Chiudo gli occhi e penso alla mia prossima vita. Cosa sarò? Proprio non so… lascio che sia il caso a decidere per me, spero solo di non dimenticare, non per vendicarmi, i cani non si vendicano, perdonano, ma per essere grande. Ecco vorrei essere un grande uomo un giorno, perché i grandi uomini ci sono e non sono pochi, per fortuna. Sono quelli che sanno che dare è meglio che prendere, che essere è meglio che sembrare, che diventare ricchi non è sempre questione di soldi.
Vado ora, sono veramente tanto stanco, credo di essere stato fortunato nonostante tutto, ho avuto anche un nome, un po’ di tenerezza e persino una amara libertà, so di cani che vengono legati alla nascita con pesanti catene di ferro e tenuti così per anni, a guardia di chissà che.
Quante mosche, scusatemi, scusatemi anche per questo, ma non le ho chiamate io.

[continua]


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