Strade di polvere, invisibili vite

di

Chiara Celi


Chiara Celi - Strade di polvere, invisibili vite
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 58 - Euro 6,70
ISBN 88-6037-261-5

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Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autrice è 2^ classificata nel concorso letterario «J. Prévert» 2006 sezione poesie


Presentazione

In un mondo distratto, mentre “intorno tutto scorre” si dispiega il pensiero di Chiara Celi, a cercare le risposte ai continui interrogativi, a scandagliare le notti sconfinate quando “s’artiglia il ricordo” e gli occhi inchiodano alle ombre.
Scavando nell’inquietudine alla ricerca d’un segnale, d’una limpida certezza, d’un “gesto che canti l’immenso”, capita di oscillare tra silenzi e smarrimenti, e viene in superficie il desiderio di “restare immobili” come se ci si trovasse a vivere un’unica stagione che ha dimenticato il ciclo naturale.
In questa “muta deriva” scoprirsi come sospesa, chiusa dentro una simbolica “bolla” a fare i conti davanti a “giorni prigionieri”, a districare la matassa d’inutili parole, “impietrita davanti a frasi impazzite”, “a divorare le ombre di strazianti silenzi”.
E sentirsi come trattenuta sul fondo di una realtà infida, in superficie totale mancanza di vento che rende assai arduo salpare per un desiderato luogo/approdo, e quel desiderio di “rannicchiarsi come un feto”, quella volontà di continuare a cercare muovendosi in cerchio, non fanno che alimentare la febbre dell’animo, il ribollire velenoso “tatuando sul petto l’ustione di un miraggio”.
E poi, nella lirica “Richiamo spezzato”, Chiara Celi pone in evidenza le sue vibranti constatazioni e scrive “tra opachi frammenti rimango/nell’eco di giorni scheggiati./E su cieli serrati di pietra/stanco s’infrange il richiamo” come a sottolineare la ricerca d’una possibilità che permetta di evadere da una condizione sofferta.
Le sue parole sono alimentate dal tempo che “struscia” sulla pelle impietoso, dalle vane domande e dalla negazione di una voce: le parole come “lampi nel buio” in attesa di deflagrazioni, per decodificare un linguaggio di mondi temporaneamente segreti. A volte, assalita da quella sensazione di sentirsi “orfana di parole” e far fatica a decifrare il segno di un’esistenza, come a naufragare “nel cuore del nulla”; altre volte assediata da un’ansia “vorace” che “accende come torcia impazzita” o, infine, dispersa in “irrisolti silenzi”, nei giorni vissuti sempre da capire ed analizzare quando pare non esservi nessuna ragione, nessun orizzonte promesso mentre guarda “un mondo che non le appartiene più”.
In ultima analisi, lo sguardo di Chiara Celi cerca sempre di andare oltre i confini, per ritrovare il senso più vero: le inutili parole si disperdono nell’aria fredda, le attese e le futili confusioni si possono “stracciare” e, se vi sono parole che possono ingannare, occorre “ricalibrare” l’“ardente richiamo”.
Senza mai voltarsi indietro fino a guardarsi dentro, nelle zone più segrete, nella solitudine taciuta, nella “carne vibrante”, fino a disvelare la forza d’un sogno d’un amore di luce infinita, d’uno “schianto d’antichi suoni”: ecco allora che in questo ipnotico volo che prevede ardite acrobazie interiori è fondamentale trovare la mano che stringe, che afferra, che aspetta il momento opportuno.
Eppure non v‘è mai richiesta di comprensione per il suo universo, per le traiettorie impossibili, non v‘è la pretesa certezza di capire come mai, a volte, “si perde la strada” e, in quel suo muoversi in un continuo dedalo, senza dimenticare di soffermarsi ad avvisare “non ho nessuna mappa” da offrire, ritrova infine il significato e il valore di un “semplice sorriso” seppure da sradicare da quel silenzio “irrisolto”, dall’assenza lacerante, dal quieto oscillare “senza peso”.

Massimo Barile


Strade di polvere, invisibili vite

A Maria Pia,
madre, sorella, amica.
Al suo cuore grande,
che nel mio
continua a cantare.


Perché la poesia ha
questo compito sublime:
di prendere tutto il dolore
che ci spumeggia e ci rimbalza
nell’anima e di placarlo,
di trasfigurarlo nella suprema calma
dell’arte, così come sfociano i fiumi
nella celeste vastità del mare.

(Antonia Pozzi)


Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia

(Giuseppe Ungaretti


“A te, che più non sei”

sul vetro scheggiato,
stridendo e scavando,
l’unghia del passato
s’artiglia e non molla

adunca s’appende,
di sporco marchiata,
all’istante presente
che inerme soccombe

muto pianto, la mia croce,
mentre lotto con quell’ombra
che scompare e poi riappare,
nella stretta d’una notte
che mi nega la tua voce,
e il conforto del tuo passo

è l’assenza lacerante
che mi prende, e poi mi spegne
quando sola nel mio letto
mi rannicchio come un feto,
e tornarti vorrei in grembo,
per lenire il tuo dolore

carezzandoti da dentro


“Richiamo spezzato”

Di notti arenate su gelida riva
mi vince l’inquieto durare.
Torbida acqua di ieri,
dove onda più chiara non suona.
Nel grido una vela dissolta,
divenuta sterile àncora,
mi tiene costretta sul fondo.
Non giunge carezza di vento,
né soffio che porta lontano,
sciogliendo amara catena.
Tra opachi frammenti rimango,
nell’eco di giorni scheggiati.
E su cieli serrati di pietra,
stanco s’infrange il richiamo.


“Sulla strada per Assisi”

Occhi storditi dall’ultima ombra del sonno,
riemersi su vele di chiare lenzuola
dai fondali d’una notte complice e immota.
E ci ritrovammo dimentichi
del dove e del quando,
sotto il caldo respiro del legno,
lasciando vagare lo sguardo sorpreso
oltre i confini della finestra socchiusa,
in audaci capriole nel vuoto,
per toccare la linea di quei colli lontani,
posati su campi di nebbia,
simili al profilo d’un gigante dormiente.
In lontananza, suoni di bonghi
ritmavano la danza d’animi sciolti,
nei bianchi riflessi d’un mattino sospeso
sotto cieli d’insolita quiete.
Distante la metropoli di frenesie deliranti,
i tronchi di lampioni dentro gabbie di cemento,
le luci senz’anima lungo strade d’inferno,
raschiate dall’incedere di passi metallici.
Fuggimmo dal frastuono di giorni nervosi,
per ritrovare il nostro suono più vero,
annegando gli eccessi del dire
dentro laghi di perfetto silenzio.
E giunti alle soglie dell’eremo,
seppellimmo la stanchezza dei nostri pensieri,
e il rauco borbottare d’incertezze e miserie.
La terra ci accolse come figli ritrovati,
mentre nascosti nel suo abbraccio senza tempo,
cullavamo l’illusione di fermare quell’istante,
in cui altro non eravamo
che vento dentro al vento.


“Ofelia svanisce”

Parole, inutili parole.
Disperse nell’aria fredda,
morte su pallide labbra,
tremanti di fronte all’abisso.
Parole, maledette parole.
In quest’ora confusa,
stracciata d’attesa,
io cerco un sol cenno
che sia breccia nel muro.
Un segno di fuoco
su terra di pietra.
La tua, mio signore
che un tempo m’accoglieva,
offrendomi fiori legati a promesse.
E cercando mi perdo
sotto cieli di pece,
con battiti folli, e mani mai ferme.
Amleto, io ti chiamo
ma risponde soltanto
questo vento beffardo.
Dove sei tu,
che il mio volto sfioravi
nelle notti più nere?
Pazza, pazza d’amore
mi sciolgo in fiumi di scuro silenzio
tra stelle deformi, e lune di pianto.
Bianco, fragile giglio
invisibile affondo, e al nulla io canto
senza mai arrivare a toccarti.
Perché rapido volge il tuo sguardo,
altrove, lontano da me
ch’ero soltanto una spina,
dentro al tuo cuore finita per sbaglio.


“Come foglia”

foglie,
foglie che sussurrate nel cuore della notte,
amate da un vento leggero,
a voi vorrei esser sorella:
far mio questo canto, di luna vibrante,
il quieto oscillare, senza peso, in cima ad un ramo,
e infine, al ventre della terra discendere
piano, senza sapere il rimpianto.


“Sorriso di Blues”

Non ti chiedo di comprendere il mio universo,
i pianeti vorticanti su traiettorie impossibili,
le solitarie meteore in cerca d’uno schianto,
le costellazioni ubriache,
che a volte si spengono con un soffio,
a volte ardono come occhi di fuoco
sul volto incolore d’un giorno qualsiasi.

Non ti chiedo di comprendere la mia strada,
che a tratti si perde
in un contorto dedalo di vicoli sporchi, intrecciati
sotto lo sguardo fulminato di pochi lampioni,
sentinelle del nulla,
fra l’odore di muffa che trasuda dai muri crepati;
a tratti prosegue, ampia e diritta,
fra profumi sparsi su carezze di vento,
fino a quel punto, là, dove la terra si congiunge col cielo.

Non ho nessuna mappa da darti,
per farti muovere con sicurezza dentro di me,
e mi chiedo a cosa potrebbe servire,
in istanti come questo, in cui sembra bastare
il tuo complice sorriso, che ammiro stupita
attraverso il vetro del mio bicchiere,
mentre colgo fra le pieghe delle tue labbra
parole taciute, eppure così vibranti di suono,
in quest’aria di calde note di blues,
che giocano coi nostri pensieri

e ancora ci portano via,
oggi come ieri.


“Nodi slacciati”

Attimi gocciano
di lucente cristallo
dalle tue dita
che lievi m’esplorano,
nel buio più nero
che mai ci ha velati,
nel silenzio più duro
che mai ci ha dispersi.
Sanno a memoria
ogni percorso,
eppure,
conservano intatto
l’ardore
di quel primo tocco.
E dentro ai tuoi occhi,
che non celano inganno,
io slaccio i miei nodi,
e vivo, e mi espando.
Oltre i miei confini,
senza più limiti,
come mare spumeggio
nella notte dischiusa
al limpido abbraccio
d’una luna
mai arresa.


“Nel mio inverno segreto”

sciolto il pensiero s’affanna
su muri di terra ferita
verticale tensione
prigione
dove inverno segreto respira
mordendo germogli d’aurora

curvo straripa e risale
quel pendio d’attimi spogli
gelando, gridando
sanguinando memorie
al passo stremato
allacciato a un tramonto fatale

insensata, estenuante salita
che meraviglia di vette non svela
ma di notti sconfinate
il muto sprofondo

ed è qui che io ritorno
– e invisibile resto –
gravida ombra, figlia immutata
di un’unica, eterna stagione

mentre intorno,
tutto mi scorre


“Assurdo ritorno”

Di nudi scogli son fatti
i miei giorni senza risposta.
A volte, di me
non vedo che l’ombra,
nera, insoffribile noia.
Di me,
che sempre vorrei esserti lieve,
muovermi piano dentro al tuo cielo,
come l’ultima luce al crepuscolo
che nel volto della sera si stempera,
senza conoscer frattura.
E rifugio vorrei darti
fra solide braccia,
più forti del triste abbandono.
Ma è dura, a volte, riuscire a fermare
quest’inquieto infrangersi d’onde,
fra strani silenzi che oscillano
da un capo all’altro del vuoto.
Ché ancora ho paura, anima mia
quando a lungo taci,
quasi la tua assenza celasse un abisso,
dove il mio nome frana e svanisce.
Lo so, mi pensi ostinata
– o forse dovrei dirmi pazza –
mentre traghetto dense parole,
sola, da una riva all’altra,
cercando un bianco segnale,
una limpida scia di certezza,
un gesto, che canti l’immenso.
Ma complice il vento non soffia
a gonfiar della voce la vela,
e in muta deriva mi scopro,
fra sillabe rotte sospesa,
arresa a un assurdo ritorno.


“Guardami”

Dimmi quanto tempo ancora,
prima che si spezzi questa corda,
stretta fra mani roventi, che non sanno lasciare,
tesa fra quattro pareti, d’un bianco malsano,
dove lo sguardo resta incagliato,
come amo bloccato fra le pietre del fondo.
Potrei diventare piccola, talmente piccola,
l’ultima goccia di sudore sul tuo volto contratto,
che lenta scende, lungo linee già percorse
in altri tempi, e in altri modi,
fino a fermarsi appena sopra il labbro,
in attesa di essere leccata via
dall’aria fredda d’un inverno che resiste.
Potrei diventare grande, talmente grande
da racchiudere la notte in un sol pugno,
e strappare il cielo con un graffio d’unghia,
e con un dito cancellare
dalla faccia d’una luna puttana
quel sorriso che risplende bugiardo.
Mi vedi, sono ancora qui,
chiusa dentro una bolla, che rimbalza
fra gli opposti sbagliati di eccessi divoranti,
qui, dove il tempo è una virgola appuntita
sospesa in un deserto di parole,
conficcata nella mia schiena piegata,
mentre gli occhi s’inchiodano a terra,
muovendosi febbrili, in cerca delle orme
di quei passi leggeri e sicuri,
che seppero, un giorno, portarmi fino a te.


“Non so”

non so più dirti di me,
che disarmonica vago
nel mare d’inchiostro
di notti senza suono,

orfana di parole
svanite all’istante

mentre tu, di spalle
al mio naufrago volerti,
serri la tua porta,
ingoiando la chiave

non so più dirti di me,
che muta boccheggio
sulla riva bollente
d’un mare straniero,

orfana dell’onda
che viaggia distante,

mentre tu,
indecifrabile segno
nel silenzio tiranno,
volgi altrove, distratto

ogni tuo sguardo

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