Il respiro del giglio

di

Chiara Celi


Chiara Celi - Il respiro del giglio
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 72 - Euro 7,00
ISBN 978-88-6037-7319

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In copertina: fotografia dell’autrice


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autrice è 1a classificata nel concorso letterario M. Yourcenar 2007 sezione poesia


Prefazione

Leggere le poesie di Chiara è stato per me un progressivo sprofondare in un’atmosfera da cui mi sentivo sempre più avvolta, come nell’ascolto di una sinfonia, ed era una sensazione di sorpresa e riconoscenza: sorpresa, per il potere di accattivante seduzione esercitato da quei versi brevi, intercalati da altri più lunghi ma ugualmente ritmati, scorrevoli e scanditi come i tempi della ‘pastorale’, pur con un altro contenuto emozionale rispetto a quello delle danze sull’erba di Beethoven; riconoscenza, nel senso di riconoscere come vissuto di un intero universo femminile la ricchezza interiore che i versi di Chiara rivelano: dolore, insieme ad inquietudine e a un’ansia ambigua e sottile che si fa sorella dell’angoscia, è il sentimento prevalente delle sue poesie; Chiara ne disegna le luci e le ombre, i contorni e le sfumature, sublimando la sua esperienza personale, il suo vissuto di donna e figlia, attraverso il rapporto determinante col tempo; si tratta di un tempo dimenticato, sepolto e riportato alla luce, nel quale Chiara riesce a declinare i moti dell’anima svelandone le contraddizioni profonde e insanabili proprio quando la ricerca di senso sembra approdare a qualche certezza; particolarmente significativa in questo senso è una delle poesie dedicate alla madre:

“Un nodo”

Stordita da una chiusa malinconia
in questa sera troppo gelida
per unirmi al rumore del mondo.
La casa non ha eco di passi.
Da un tempo lontano
immobili corsie mi tornano
tra sgorghi di sillabe in preghiera
lungo la dura prigionia
dei letti, dei corpi accostati
all’ultimo silenzio.
Ogni tanto si aprivano le imposte
all’osceno vibrare di un cielo
colmo d’estate.
Allora, quel candore ammalato
pareva riaccendersi
distanziare il congedo.

Quel che rimane, ora
è una minima luce – la stessa
di ogni mia notte in esilio –
sul profilo di un giglio disteso
tra pagine di roccia.

Un nodo. L’incerto cammino.

e così, attraverso il percorso poetico, Chiara riesce a realizzare quell’abbandonarsi al tempo che solo può garantire all’arte la sua morale, quel perdersi nel tempo che solo può dare la forza di ritrovarlo, e trova in “Tracce” il suo epilogo ideale:


Lassù, fra corde
che inginocchiano il tempo,
respirano
mani protese
al miracolo
e tracce
colme a fiorire
da un groviglio di secche radici

assecondando e superando il pensiero proustiano, per cui solo il tempo può risuscitare nelle cose quella fiammella dimenticata che ne fa risaltare la vera natura, nel segno di una struggente precarietà; ma la fragilità non è più sentita una condanna bensì un valore, un simbolo di vita anche nella sua più dolente declinazione, come nel buio di una solitudine punteggiata dai ricordi ingannevoli di

“Fuori dal tempo”

Fuori dal tempo
questo nudo restarmi
creatura di ruggine
dietro lunghe dita di nebbia
a chiudere l’orizzonte.
Impetuoso rimbomba
il torrente di una voce
antica, simile a squarcio
tra le gracili zolle
di una stagione che dura.
Eco d’ingannevoli passi
verso gli argini vuoti
dove l’ultima stella precipita,
nel fragore dell’acqua
inabissandosi.

Protagonisti delle poesie di Chiara sono le persone e gli oggetti della realtà quotidiana e del ricordo, trasfigurati e idealizzati dentro paesaggi naturali in cui dominano i quattro elementi primordiali, ma soprattutto l’acqua; l’acqua, presente in tutta la molteplicità delle sue forme, ne caratterizza la stessa scrittura: fluida, dinamica, scorrevole, e nello stesso tempo pura, vitale, persistente, è l’elemento chiave più presente nei suoi versi, in tutte le possibili infinite, sofferte varianti: metafora di un’angoscia sottile, che a volte come liquido trasparente scorre in modo quasi indolore, di un sentire struggente, memoria dolorosa di un grembo materno troppo presto negato, oppure di libertà da conquistare in una possibile via di fuga attraverso i misteri dell’inconscio; ma è anche un tormento che si condensa in gocce minacciose che gonfiano l’aria, in cristalli di gelo o schegge di grandine che arrecano profonde ferite, oppure un sentimento che si espande in larghezze oceaniche, dove i sensi si dilatano a scoprire nuovi gesti, nuove emozioni, fino al quieto biancore di una neve impalpabile, quasi asciutta, che estingue insieme all’acqua ogni desiderio e si dissolve nel gusto amaro di una sete metafisica, perché ciò che rimane e resiste è solo la voragine in cui l’anima sprofonda, lacerata dal vuoto di assenze incolmabili…

“Blues di una notte d’inverno”

Che follia, quel bianco a sprofondarci
promettendo la salvezza.

E rimanere
sopra un tavolo di ore stordite,
a scrosciare sorrisi, come se nulla
fosse mai stato,
come se un blues bastasse a sfaldare
questa ruvida pelle di notte.

Poi,
lungo fragili strade piegarsi
alla sete, ancora –
al mormorìo
di un passo che torna, eppure
inafferrabile –

e in un fiato
sapere la distanza, e quanto brucia
l’inverno sulle labbra,
e la polvere
tra le mani addormentate.

Non solo acqua, ma anche terra, aria, fuoco… terra che può essere pietrosa e arida, oppure fiorita e vitale, e comunque sempre tangibile, concreta, estremo appiglio di roccia quale elemento di stabilità sul ciglio dell’abisso delle incertezze umane; e poi aria, in lieve brezza o vento tempestoso, e fuoco, cifra dell’eterno dualismo amore/dolore, disperazione/speranza, salvezza/dannazione.
E così, questo tempo riscoperto e ritrovato, che rappresenta quasi un ‘termine fisso d’eterno consiglio’, che vivifica e redime la coscienza di sé come uno spirito laico con un ruolo in qualche modo equivalente a quello dello spirito santo per la redenzione dell’umanità, risplende come una fiammella brillante e incorruttibile nelle gocce d’acqua e nell’aria illuminata dal sole, riflette nel brillio delle pietre e della rugiada sull’erba l’estrema scintilla di vita che accende gli occhi delle persone che soffrono, e raggiunge la massima espressione lirica in “Una promessa di mare”, diventando una evidente testimonianza di un’intima verità rimossa e tornata alla luce, con tutta la forza e la soavità di un salmo biblico, di un cantico d’amore.

“Una promessa di mare”

Ti ricordo farfalla
sopra un letto disfatto:
alle mie mani
t’affidavi in silenzio,
per trovarvi un lembo di cielo.

Così spogli quei muri
a inchiodarti le ore
dove il destino marchiava
il suo ultimo sfregio.

Eppure, tu sorridevi
– pianissimo, ché ogni respiro
ti schiantava nel petto –

con gli occhi arrossati
mi facevi una promessa di mare,
di rive abbracciate all’immenso.

Ora, un mormorìo di risacca
scuote il velo dell’ombra;
nel sonno sospeso
il tuo nome mi trema.
Fuori, è l’alba
la vita che piano si desta
fra onde d’un tenue cobalto.

E improvviso mi giunge il tuo odore,
il tuo sguardo:
là, io amo pensarti

limpida goccia
in quel mare che t’era fratello.

Silva Bettuzzi


Il respiro del giglio

“Blues di una notte d’inverno”

Che follia, quel bianco a sprofondarci
promettendo la salvezza.

E rimanere
sopra un tavolo di ore stordite,
a scrosciare sorrisi, come se nulla
fosse mai stato,
come se un blues bastasse a sfaldare
questa ruvida pelle di notte.

Poi,
lungo fragili strade piegarsi
alla sete, ancora –
al mormorio
di un passo che torna, eppure
inafferrabile –

e in un fiato
sapere la distanza, e quanto brucia
l’inverno sulle labbra,
e la polvere
tra le mani addormentate.


“Alla fine della grandine”

E torna
lo sparo di un grido
in quest’aria gonfia di gocce.

Notti, lacere notti
strette ai nervi di un pugno.
Non era
che un ghigno incessante – il vento –
sull’esausta fragilità della foglia.

E torna. Come quando
ero nebbia negli occhi, e fuoco
gettato nel fuoco.
Quei lunghi
singhiozzi del ventre
contro un muro piombato dal nulla.

– eppure, sapevo
che un silenzio sarebbe bastato –

Grandinano schegge lontane.
Apro le braccia. E lascio
che tutto dissolva.
Fino al respiro
dell’ultimo approdo, lungo le mani
che oscillano lievi.

– Resta –
mi dici in un soffio.

Ma io
non mi sono mai mossa
da qui.


“Oceani”

Ricorda
le vaste ombre versate
in quel calice stanco,
quando l’urlo
del vetro in frantumi
c’inchiodava a un freddo tramonto.

Ricorda. E dopo,
dimentica.

Ti chiedo
di abbracciare il silenzio
ora che la cenere
si perde lontano,
e vibra
un suono di luce – la pelle –
tra i solchi
di un tempo ferito.

Ricorda. E poi,
abbandona.

Così breve
è l’andare dei giorni
che al largo ci posa, nel mistero
di acque racchiuse
all’incrocio di nuovi respiri –

oceani
da scorrere ancora,
come fosse
l’ultimo gesto.


“Tracce”

Come un pugno di luce
su porte offuscate
batte l’attesa
dei dodici rintocchi.

E torna
l’abbraccio delle cose
smarrite
al margine di vie
ciecamente percorse.

Dove mura
immutate si alzano
ci nasconde
un velo di notte,
smosso dalla brezza
d’impercettibili voci
lontane.

Lassù, tra corde
che inginocchiano il tempo,
respirano
mani protese
al miracolo

e tracce
colme a fiorire
da un groviglio di secche radici.


“Nìjar”

Se potessero i giorni
risalire le acque
sino alla sorgente

sarebbe Nìjar, ancora

– ricordi? –

Nìjar
dalla pelle accecante

coi suoi nidi immacolati
nel frusciare della siesta

e quell’azzurra distesa
– così piena, così fonda –
sui nostri respiri,

a liberarci.

Sarebbe la voce
millenaria della roccia
nei profumi di una terra
benedetta dal sole

i suoi miraggi
sospesi fra le agavi, e gli eucalipti

e un pareo color ruggine
rapito dal vento.


“Ali verdacqua”

Nella febbre
di notti nascoste
in un ventre di puro cristallo
Van Gogh
posa un papavero
a sospendere il passo
del tempo.

Là, dove ogni confine
trema
e svanisce,
un brivido
fra nuove corolle
spalanca la via.

E volano
ali verdacqua
sul muro di rossi vibranti –
come me,
quando tenue attraverso
il tuo fondo
mistero assopito.

(versi ispirati al dipinto di Vincent Van Gogh “Farfalle e papaveri”)


“Un jazz all’ultima luna”

Quei vicoli spogli,
dove il tempo
riavvolge il suo filo,
e dall’alto
una voce sottile
d’acqua che lenta ci naviga
oltre i crateri
di gesti affilati: guarda,
i nostri passi
non hanno mai dimenticato.

Siamo aria
fra questi vecchi corpi di pietra,
dove tremano storie
di stagioni lontanissime.

E strarìpa
da un nodo di mani un brivido
fumoso di jazz,
e quella lunga notte arpeggiata
in bottiglie
da bere alla goccia

quando il fragore
improvviso di vita
ci versava su strade travolte,
per un addio
all’ultima luna.


“Caracalla”

Il passo abbracciato dal sole
suona un silenzio irreale
tra le pietre in colloquio col cielo:
al rifugio dell’ora inviolata
si entra con labbra sospese.

Tutto ha una voce
oltre il fondo abisso dei secoli.

E mi arrende
il pulsare di antiche memorie
lungo i muri venati d’eterno,
dove ancora
mi sembra di udire
il morbido verso dell’acqua
sul fiato di vite lontane,
a corrermi sotto la pelle.

Qui, nel profumo
di bianche magnolie,
Giugno sboccia grandioso
per donarmi altri respiri.

E lentamente,
nell’erba frusciante un ritorno,
si disfano
i nodi di affanni segreti

mentre altissime ali attraversano l’aria,
strappandomi via.


“Nell’ultima luce del giorno”

Se tu sapessi che vita
mi agita il sangue,
ora che il tuo andare mi accoglie,
sprofondando nuvole
e croci.

È qui, la pienezza
che dà voce al mio tempo:
nella terra
di un settembre inoltrato,
a crescere il germoglio
di sconfinati percorsi,
qui, dove l’ultima luce si posa,
offrendosi grembo
per nuove parole.

Ammutolisce
il grido dell’onda, in cui l’attesa
pulsava come un faro
sfinito.

Tu mi guardi, e sorridi
ai miei capelli scompigliati,
al volo
degli occhi rapiti
dall’antica danza
degli alberi, tesi a corteggiare
un azzurro lontano.

Così
ci ha sorpresi l’autunno,
il lento ripiegarsi
delle cose
in un guscio di nostalgia.

Ma se tu sapessi che vita
mi nasce nel sangue,
ora che le tue mani
aperte mi mormorano,
facendomi fiore
nella cenere d’ogni mio abisso,
nel silenzio che il tuo vento percorre,
strappandomi l’ombra
dal petto.


“Antonia”

Stasera,
nell’ora che la calma dilata
quando tace ogni voce,
e tutto rimane
velato in quell’abbraccio di nebbia
che il tempo sospende,
da buie profondità
mi sono apparsi i tuoi monti –
certezza di pace, rifugio
dall’inquieto rumore degli anni
percorsi sul ciglio
di dure, segrete voragini.

E ho visto le tue mani
aprirsi all’eternità
della roccia,
e la tua voce versarsi
in un esile
arpeggio di acque
tra le fonde radici, e nell’erba
suonata dal vento –
finché il crepuscolo affondava le cime
e dai campanili
lunghi rintocchi scendevano
ad accompagnarti il ritorno.

Così, dallo stelo
di una fragile vita,
le tue parole fiorivano
come glicini
stretti in un’ansia
di luce

che troppo presto
ti abbandonò.

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