La collina degli ulivi

di

Caterina Caldora


Caterina Caldora - La collina degli ulivi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 164 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-5957

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In copertina: «Verrà primavera» pastello 50×70 – realizzato dall’autrice


PREFAZIONE

Il paese natìo e la casa paterna rappresentano per ogni essere umano il luogo dove ogni ritorno è il viaggio dell’anima che anela alle sue radici. Si tratta di un viaggio devozionale, spesso fatto in solitaria, alla ricerca dell’essenza residuata dall’immagine materiale di quei volti, di quelle voci, di quegli affetti che hanno popolato il passato e che i verdetti inappellabili del tempo negano al presente. L’isolamento meditativo diventa necessario per rifugiarsi in se stessi, nei meandri dell’anima, unico luogo d’elezione dove il vissuto è un asilo e la reminiscenza un conforto. Nel coacervo dei sentimenti tipicamente umani, tutto viene rivisitato nel ricordo che si fa sofferenza, nella malinconia che si fa dolore, nel rimpianto che si fa pentimento.
“La collina degli ulivi” è tutto questo. È un romanzo di ricordi, un film che si sbobina nella mente della protagonista dove appaiono immagini sfocate dal tempo, lacrimate dalla nostalgìa. L’io narrante si presenta in prima persona e comunica al lettore il proprio stato d’animo. La protagonista, ormai adulta, spalancando le finestre per dare aria alle stanze della casa paterna, ripensa all’epoca in cui bambina e adolescente aveva abitato quei luoghi. Sfila davanti ai suoi occhi quello che resta della realtà semplice del paese e dell’infanzia. Muovendosi tra le stanze ben note, le tornano alla mente episodi del passato celati in qualche oggetto, in una cornice fotografica, sul fondo nero del camino o nello schienale di una vecchia poltrona affossata, per riappropriarsi di quella stagione della vita che sembra essere fuggita e nei confronti della quale a nulla valgono gli sforzi della memoria. Si rende conto che il paese in cui è tornata è molto diverso da quello che ricordava, che l’avvicendarsi generazionale non lo ha lasciato indenne, che il trascorrere del tempo ha portato con sé separazioni, dolori, costumanze e tradizioni. Il romanzo è un monologo interiore in cui l’autrice si interroga sul rapporto tra passato e presente, tra la realtà immobile dei ricordi e lo scorrere inesorabile del tempo e i cambiamenti che esso provoca.
Sospinta dal vissuto emozionale, avverte l’esigenza di una ricerca in cui poter “riascoltare” il calpestìo remoto di passi perduti o le voci spente dalla morte vorace che depreda gli affetti, per ritrovare l’essenza degli anni giovanili, quasi sospesa tra il bagaglio gravoso del passato e l’incertezza del futuro, entrambi inafferrabili. I cambiamenti non riguardano solo il paese; è il modo di vedere le cose da parte della protagonista che è cambiato perché è ormai irrimediabilmente cresciuta abbandonando la condizione mitica dell’infanzia. Ed ecco che quando il riaffiorare del passato si fa impetuoso, la casa, le vie, le escursioni nella natura amica, la buona gente del paese diventano una condizione necessaria per recuperare le verità più profonde di se stessa, per ricostruire la propria identità ed integrità. I personaggi che hanno lasciato un’impronta appartengono per lo più ad una umanità semplice e dolente raffigurata con affettuosa partecipazione.
In uno stile lineare e incisivo in tutti i capitoli descrive i luoghi, nomina le figure che incontra nella memoria, fa emergere dalle righe una realtà fatta di cose ed esseri umani in cui si manifestano le pulsioni e le sofferenze più profonde e ineluttabili che accomunano tutte le creature. La ricerca sembra basarsi su un equilibrio binario fatto di contrapposizioni tra i luoghi solitari di oggi e quelli popolati di ieri, tra i valori alti di altri tempi e la superficialità della società odierna. C’è lotta tra l’estraniazione che la donna adulta prova nel rivisitare i luoghi dell’infanzia e l’ardore, l’esigenza di ripercorrere le stradine, i vicoli, i sentieri di campagna in cui la bambina scorrazzava felice. Il tempo passato rende amara l’anima, allontana lo stato di grazia. L’immagine di una persona cara, intravista per un attimo, si dilegua prima di poterla afferrare. Ma, come a suggerire il filo di un di­scorso interrotto, resta il paesaggio immutato, restano gli olivi secolari avvolti nel silenzio, simbolo d’indefinitezza e solitudine.
Soltanto quando si accosta ad essi, immobili ed imponenti, prova la sensazione di non essere sola. Nel silenzio della campagna l’albero dell’olivo, santuario di radicate tradizioni, circonfuso da un’atmosfera di mistero che richiama la natura ancestrale dell’uomo, irradia preziose alchimìe e pare volerle narrare una storia che sa di antico, come antica è la fatica della povera gente.
Muto testimone della perenne condizione di affanno del mondo contadino, l’olivo sembra aver umanizzato nella forma fisica la liturgìa del travaglio umano. Le profonde scanalature della corteccia sono come i solchi cesellati nelle mani callose, illividite dal freddo, martoriate dal duro lavoro, che per secoli si sono mosse con perizia tra i suoi rami per raccoglierne i frutti.
Statuario e forte della sua longevità che sfida il tempo, l’olivo arricchisce il lessico intellettuale della protagonista con parole nuove e arreca sollievo al senso acutissimo della nostalgìa. Sui paesaggi dell’anima, fatti di speranze perdute e promesse disattese, di dubbi e smarrimenti, di sogni non realizzati nel passato e di incertezze nel futuro, si irradia una luce nuova. Si sciolgono i rimpianti e i contrastanti sentimenti interiori trovano la propria ragion d’essere nell’epifanìa della natura. Come l’olivo che si bea al sole di oggi ma poggia sul tempo passato, anche la protagonista comprende il senso profondo dell’esistenza: è l’apparato radicale della memoria l’unica arma in grado di opporsi all’azione distruttrice del tempo irrorando i giorni del presente con il vivificante apporto della linfa dei ricordi. Finalmente non c’è più discordanza tra il proprio stato d’animo e lo scenario naturale: su tutto domina la collina degli ulivi, emblema di forza spirituale, fonte di gioia, dispensatrice di pace.

Carla Viola


La collina degli ulivi


“…mi sembra come se raccontassi un sogno variegato di mille emozioni, gioie, tristezze…”

Francesca Catalini


I

Crepita la fiamma nel camino. Sto bruciando le potature degli ulivi. Guardo le frasche appena tagliate che, quasi corpi vivi, si contorcono al calore. Sono verdi ma bruciano ugualmente, come l’alloro e il pittosporo. C’è aria di casa ma sento anche un senso di estraneità dal mondo esterno che circonda queste mura e questo fazzoletto di terra a cui sono abbarbicata.
Fuori c’è un mondo diverso, lontano da quello amato e sofferto da bambina e poi da ragazza. Quasi tutti i visi che incontravo nella vita di ogni giorno si sono rifugiati nel piccolo, lindo cimitero. Ascoltano il cinguettìo discreto dei passeri che abitano i cipressi e hanno dimenticato rughe e dolori.
Non sono nata in questo agglomerato di case che vanta un centro storico antichissimo in parte distrutto dall’ignoranza, in questa comunità chiusa in un innato riserbo che può sembrare scontrosità. Tra questo gruppo di casette quasi uguali nella struttura, con la sua corona di collinette appena accennate e il suo pezzetto di mare blu che si scorge in lontananza alla foce del fiume, c’era anche il mio nido.
Qui ho sputato per sempre il ciuccio. Qui ho trascorso la mia infanzia bella e triste, gli anni delle corse sui prati, delle passeggiate chilometriche mano nella mano della tata, delle volate sull’altalena sospesa al primo albero utile sull’aia di case amiche. Qui ho vissuto la ribellione e il dolore di mia madre che io, solo una bimba, non capivo, non potevo capire; l’orgoglio sbagliato di mio padre.
Mia madre! La rivedo e la ricordo bella e severa, troppo, raramente sorridente, spesso inquieta e insofferente. Lei non amava questo paese e questa comunità, tranne alcune eccezioni, non amava lei, «quella venuta dalla città con la bocca sporca di pomodoro». Credo che anche la sua bellezza desse ombra, senza alcun dubbio all’altra nuora che abitava con i suoceri e i nonni nella grande casa della famiglia.
Ricordo che, compatibilmente con il lavoro di mio padre, a volte i miei andavano al cinema o al teatro nella vicina città lasciandomi con la tata. Io mi appoggiavo alla sponda del letto e l’ammiravo mentre lei si preparava. Indossava a volte un abito nero di crèpe di seta, che conservo ancora, rifinito alla scollatura da una ruche che le incorniciava il collo e il viso dai lineamenti perfetti mettendo in evidenza la pelle candida già valorizzata dagli occhi grandi e neri. Un volant arricchiva la gonna sul dietro, come ad accennare uno strascico. Alta, snella e diritta. Era proprio bella, la più bella delle tre figlie di nonno Peppe.
Lei non era felice qui. Voleva solo andare via, io invece sempre più col passare degli anni, l’ho considerato un rifugio in cui annegare le delusioni perché questo pezzetto di natura non mi ha mai delusa. Se un albero sta male, lo curo e lo coccolo, credo in lui, certa che farà del suo meglio per vivere.
Così un giorno di fine luglio, nel tardo pomeriggio, sono tornata.
Mi sono chiusa il portone alle spalle e, improvvisamente stanca, mi sono seduta sullo sgabello accanto alle librerie. Mi sono guardata intorno. La mia casa! E mi sono chiesta: perché la sento così mia? Eppure l’infanzia l’ho vissuta in una casa diversa, non bella e spaziosa come questa…
Quella casa si specchiava con la grande casa natale di mio padre e si trovava sulla strada principale, unica e polverosa, che attraversava il paese. Le altre erano solo vicoli o carrarecce più o meno larghe. La nostra abitazione era a tre piani, di cui uno sotto il livello stradale, con le mura di pietra così spesse da poterci ricavare degli armadi-ripostiglio per le provviste o per gli abiti al cambio di stagione.
Era stata costruita, e mai completata, per la sorella di nonno Matteo che si era sposata ed era andata a vivere in America, ed era stata prestata a mio padre quando questi aveva deciso di far ritorno, suo malgrado, in paese dopo una violenta discussione con il cognato-socio dell’Am­bulatorio medico del suocero.
Prima che fosse ristrutturata, cosa che avvenne quando io avevo tredici anni, appena superato il portone ci si trovava in un mini ingresso che fungeva anche da sala d’aspetto per i clienti.
A sinistra c’era l’Ambulatorio e poco oltre si accedeva all’abitazione con tre gradini di cemento che, da bambina, in bilico sui tacchi e paludata in qualche vecchio abito di mia madre, ho più volte provati.
Sento ancora la sua voce: “Te l’avevo detto. E adesso non piangere se non vuoi il resto!”
Con resto intendeva gli sculaccioni che spesso mi elargiva per la mia testardaggine.
Ai gradini seguiva, sempre a sinistra, una ripida scalinata che portava al terzo piano, mentre di fronte ci si inoltrava in un corridoio che rendeva indipendente una stanza in cui erano sistemati il pianoforte di mamma, una libreria antica, un letto per eventuali ospiti e un tavolo con quattro sedie.
Questa in seguito è stata la mia camera da letto quando sono diventata grande, a sei anni. Ero orgogliosa di saper dormire da sola.
Avevo imparato ad accettare la compagnia della famiglia di topolini che, durante lo sfollamento, quando avevamo dovuto lasciare la casa al Comando Tedesco e poi a quello Inglese, si erano istallati nel pianoforte e vi avevano fatto il nido utilizzando il feltro dei martelletti. Erano in verità dei topolini molto sfacciati che, oltre ad arpeggiare senza riguardi, la notte passavano sul mio letto per andare a rifornirsi di cibo in uno stipo a muro in cui erano riposte le provviste di legumi. E quanti agguati erano stati necessari per stanarli!
In fondo al corridoio si apriva la porta della cucina. Appoggiato alla parete a sinistra di chi entrava c’era il tavolo con il ripiano di marmo bianco corredato da sedie impagliate. Accanto c’erano le fornacelle in muratura poste ad angolo e seguite, sulla parete adiacente, dal camino.
La terza parete era libera e si completava con un balconcino raso muro che dava luce ed aria alla stanza. Sulla quarta parete, di fronte al camino, c’era una poltrona, a seguire una credenza e una porta a due ante che introduceva in una stanza, pavimentata in cemento, in cui trovavano posto un angolo-lavanderia, un forno per cuocere il pane e un servizio igienico.
Da questo locale si usciva su un ballatoio da cui partiva una scalinata che portava al piano sotto il livello stradale, le cui stanze erano abitate da due terribili vecchietti, e ad un quadrato di terreno in parte recintato, usato per custodire i polli, le galline e le oche che i clienti regalavano a mio padre.
Mia madre con il petto delle oche aveva imparato a fare delle ottime salsicce dal sapore delicato. Le galline c’erano, ma purtroppo le uova sparivano. Papà, che conosceva il mano-lunga, collegò un filo elettrico al cancelletto del recinto e la sera teatralmente, prima che fosse buio, annunciava a voce alta che avrebbe inserito la spina nella presa. Così erano finite le sparizioni.
Proprio in fondo alla scala che portava al pollaio, erano state messe a dimora, chissà quanti anni prima, alcune viti di uva moscata che avevano allungato i tralci fino ad ombreggiare la scala e il ballatoio.
In autunno i piccoli grappoli dai rotondi dolcissimi acini, stretti l’uno all’altro come per difesa, erano raggiungibili anche dal balconcino. Mai più ho mangiato frutta così fresca e dolce. Se ci penso ne sento ancora il sapore.

***

Il rintocco dell’orologio del campanile mi aveva riportata alla realtà: erano le diciannove ed io ero lì ancora seduta a ricordare cose… morte.
Sono salita al primo piano e, dopo aver spalancato le finestre della cucina, ho aperto la veranda ed ero uscita sul prato. Ne ho avuto pena. Era quasi disseccato dopo mesi di calura e di abbandono. Ho accarezzato il calore del sole sul tronco rugoso dell’ulivo secolare, che ha ombreggiato le sieste di papà, e mi sono sentita stringere il cuore.
“Domani comincio ad innaffiare. Nel pozzo c’è acqua sufficiente e in una settimana sarà tornato a posto… o quasi.”
Avevo parlato ad alta voce e mi sono accorta di aver zittito i passeri che bisticciavano tra i rami e come per sfida avevo continuato lasciando scorrere la mano sulla corteccia calda e ruvida: “Beh!, se mi fermo qualche giorno nessuno me ne vorrà, forse non se ne accorgeranno neppure.”
Sono rientrata in casa e, come facevo ogni volta che tornavo, sono passata in camera dei miei e, posando la mano sul loro letto li ho salutati: “Ciao pà, ciao mà.”
Dopo aver spalancato le finestre all’ombra, mi sono spogliata e ho infilato una vestaglietta un po’ scolorita scovata nell’armadio.
Rovistando nei pensili della cucina ho trovato del tonno in scatola con i fagioli e qualche fetta biscottata.
Controllate le scadenze, ho concluso che per quella sera avevo tutto e che l’indomani avrei fatto la spesa.
“L’olio c’è ancora in cantina. Che altro mi serve? Niente… Niente!?” Continuavo a parlare ad alta voce.
L’orologio alla parete era ancora funzionante. Ho acceso la TV per sentire le notizie della sera, mentre apparecchiavo un cantuccio di tavola, e mi sono seduta per cenare. Tra un boccone e l’altro ho continuato a guardarmi intorno: il camino spento eppure così caldo, la vecchia poltrona su cui sonnecchiava mio padre e che i nipoti hanno alquanto bistrattato e ho ripreso il mio monologo.
“Eh! Pà la vita è cambiata. Siamo rimasti in pochi ad amare certe cose.”
Spesso chiacchiero con mio padre, faccio finta che ci sia ancora ad ascoltarmi. A volte gli rivolgo anche dei rimproveri per aver condizionato così tanto la mia vita, rimproveri che mai gli avrei fatto, non per timore, ché da tempo ho smesso di temere le conseguenze delle mie idee, ma per amore ed è stato l’amore che quando ultraottantenne mi ha detto: “Io ho sbagliato con te. Non ti ho mai incoraggiata nelle tue passioni.”
Mi ha dettato la risposta, pur sapendo di mentire: “Se veramente avessi voluto, avrei fatto il diavolo a quattro.”
Solo ora che non c’è più a volte gli dico: “Lo avrai fatto certo per proteggermi, ma quel che è troppo è troppo! Non facevi altro che dire: Non è il caso. Solo quando mi hai vista piangere e sentito dire che avrei odiato questa casa come odiavo tanta gente del paese, hai capito che dovevi lasciarmi andare. Ma…”
Avevo incontrato mio marito e non ero più partita per Venezia.
Ho sparecchiato e messo il piatto nel lavello lasciandovi scorrere l’acqua.
“È solo uno. Domani fa giorno.”
Ho cercato tra i programmi televisivi qualcosa di interessante che mi aiutasse ad arrivare alle 23:00. Se fossi andata a letto prima, dopo le mie sei ore, mi sarei svegliata nel cuore della notte senza più riuscire ad addormentarmi e sarei stata preda del passato con gli errori, l’angoscia, le delusioni, le brevi gioie e la solitudine.
I ricordi non conoscono recinti, sono liberi da siepi. Vengono l’uno sull’altro e s’ingarbugliano e si finisce col dimenticare l’anello che lega l’uno all’altro.
Su un canale trasmettevano un giallo, ma dopo un po’ ho spento e sono scesa al piano terra, dove ci sono le librerie, per cercare qualcosa da leggere. Avevo dentro un vuoto, un pozzo senza fondo che mi attirava in una voragine di disperata inutilità.
Preso un romanzo a caso, sono tornata in cucina.
Fantasmi di luna ormai sfioravano il prato e dalle finestre aperte fluiva l’odore amaro dell’erba che il vicino aveva tagliato.
“Che pace!”, ho pensato. “E se tornassi a vivere qui? Intendo: definitivamente. Per un po’ sbraiteranno poi se ne faranno una ragione. Del resto li avevo avvertiti che da vecchia avrei dato filo da torcere.
E poi solitudine per solitudine cosa cambiava? Anzi forse i ricordi belli o amari che fossero, mi avrebbero fatto compagnia meglio degli esseri umani rivelatisi spesso infidi e ipocriti. In caso di bisogno c’è pur sempre il telefono e il pronto soccorso della vicina città. E infine, visto che prima o poi bisogna addormentarsi, è meglio farlo all’ombra di un ulivo piuttosto che nel freddo di quattro mura o, peggio, in una stanza di Ospedale.”

“Sì, tornerò qui.” Avevo deciso ad alta voce.
E mi sono sentita più sollevata. Ho gettato un’occhiata al titolo del libro. «Le parole che non ti ho detto» Già! Qual­cuno ha detto troppo ed io troppe cose ho tenuto sepolte nel cuore.
Per orgoglio? No, per pudore, per quella ritrosia che mi è cresciuta dentro a dismisura vivendo con mia madre. Di lei non ricordo gesti di tenerezza, neppure quando il mio cuore di mamma si torceva per l’angoscia. Avrei voluto piangere fra le sue braccia, ma quelle braccia non si sono mai aperte. Solo severità, castighi. Le coccole erano appannaggio di Marietta e di papà.
Mio padre! Come vorrei sentire ancora quella carezza calda con cui approvava la mia paginetta di aste e con cui mi salutava ad ogni incontro! E vorrei specchiarmi nel suo sorriso e ritrovare nei suoi occhi la comprensione e l’incoraggiamento che mi hanno dato la forza nei momenti difficili. Da medico diceva: “La prima medicina è il sorriso.”
E mi ha insegnato a sorridere anche quando era ed è difficile farlo.
Fin da bambina a lui e a Marietta ricorrevo, con il cuore che mi batteva all’impazzata e trattenendo a stento le lacrime, se avevo perduto il fazzoletto o sporcato le mutandine.
Quante volte la tata mi ha portato a casa di nonna Angeletta, dove poteva lavarle e asciugarle alla fiamma del camino così nessuno lo sapeva! E aveva sempre pronto un fazzolettino da sostituire a quello smarrito.
Eppure quando mamma è morta, una diga si è frantumata e un mare di lacrime mi ha soffocato. Da dove venivano?
Forse ho pianto per il desiderio impossibile di una tenerezza che non avevo ricevuto e che ormai non potevo neppure sperare di avere o forse per il rimorso di non essere stata capace di capire il suo dramma e di avvicinarmi a lei superando il muro della sua chiusa riservatezza. Come se fosse una cosa facile!
Eppure nella malattia l’avevo lavata come fosse stata una bambina, come lei aveva fatto con me a suo tempo, e non sentivo neppure il cattivo odore.
Che cosa abbiamo perso, mamma!
Quella notte ho dormito poco. Il cambiamento deciso mi angosciava e al contempo mi esaltava.
Pensavo al trasloco e immaginavo i mugugni e i tentativi per farmi desistere. E poi… ai pro e ai contro e a tante, tante altre cose.

[continua]


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