La mia piazza ricordi di un bambino cosentino

di

Carlo Lucchetta


Carlo Lucchetta - La mia piazza ricordi di un bambino cosentino
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 76 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-5131

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In copertina: Piazza Spirito Santo (Cosenza) fotografia dell’autore

All’interno: fotografie dell’autore


PRESENTAZIONE

Con vero piacere non ho esitato ad accettare, su richiesta dell’Autore, di stilare questa Presentazione che intende testimoniare amicizia e affetto per un ex-alunno fedelissimo che, laureatosi sotto la mia guida, all’Università Cattolica di Milano nel lontano 1974, non ha mai cessato di ricordarmi, anche per iscritto, così devotamente firmandosi: Con la stima, l’affetto e la simpatia di sempre. Il Suo fedele discepolo Carlo Lucchetta.
È lui il “bambino cosentino”, a cui, proprio in omaggio alla sua bellissima Calabria, avevo assegnato una tesi sul non facile tema Contributo critico allo studio della componente satirica nella poesia di Tommaso Campanella, suo illustre conterraneo.
È lui che, ormai brizzolato, rievoca con particolare tenerezza luoghi e volti della sua infanzia – e, ovviamente, non soltanto La Piazza – in queste pagine che ce li portano a conoscere da vicino. Pagine che, dettate da sincero attaccamento alla famiglia e al suo paese di origine, l’impareggiabile Cosenza, madre dei più profondi ricordi, hanno in questo nobilissimo sentimento, la loro prima benemerenza e il maggior pregio, per cui io incito lo scrittore a proseguirle, se vorrà, anche in senso editoriale.
E, infine, dopo il ritratto della sua Piazza così affettuosamente descritta e rimpianta, questi “Ricordi” potrebbero includere o estendersi, anche in breve, agli anni milanesi, che certamente non hanno influito poco e contribuito…tanto, alla formazione del lodevole scrittore Carlo Lucchetta.

Milano, 25 marzo 2014
Ada Ruschioni


PREFAZIONE

È con somma riconoscenza ed affetto che mi accingo a presentare il racconto autobiografico del professore Carlo Lucchetta, al quale mi lega una profonda e sincera amicizia nata nel mio anno di straordinariato. In quell’anno, per me tanto importante, egli come mio tutor mi ha con discrezione guidato nel mondo scolastico, spingendomi a sperimentare nuovi percorsi didattici.
La mia piazza ci proietta fin dalle prime battute nella sua infanzia, nelle prime esperienze di vita, oltre la famiglia, nella piazza antistante la sua casa, dove ha sperimentato i primi giochi con altri bambini. Emergono una tranquillità, una serenità, una curiosità innata di fare nuove esperienze, sotto l’occhio vigile dei suoi cari, che lo hanno accompagnato per tutta la vita futura.
Vita che dai 19 anni in poi si è svolta al nord, dove si è ritrovato grazie al sacrificio della cara madre, che, pur di vederlo laureato alla Cattolica, ha saputo stargli vicina seppur lontana, con il suo affetto ed i suoi insegnamenti. È palpabile il grande amore di una madre, di una donna che ha dedicato la sua vita alla felicità dei suoi cari, preservando nel contempo la sua forte personalità e con l’esempio ha reso forte, deciso, razionale il suo figliolo.
L’ormai pensionato professore rivede la sua piazza con gli occhi della memoria, con gli occhi del bambino che è felice nelle feste in famiglia, dei primi doni che gli porta il Natale, le gite fuori porta, la granita che ancora oggi cerca di gustare usufruendo della grattachecca, che in alcuni posti è ancora possibile reperire.
L’uomo che fa le sue prime esperienze di vita, memore di quella educazione ricevuta dai genitori; in particolare è forte quella del padre, il quale, quando dà la mano, ha sancito che la parola data con una stretta di mano è più ufficiale di mille documenti scritti.
L’uomo equilibrato, che sa essere un punto di riferimento per tutti coloro che gli sono vicini, deve tutto a Franco e Maria che con il loro esempio lo hanno portato ad essere un adulto serio e consapevole, che sa fare le sue scelte senza tentennamenti, fungendo da esempio a chi ha o ha avuto la fortuna di incontrarlo sul suo cammino di vita.
Grazie Franco, grazie Maria e grazie Carlo per averci voluto rendere partecipi delle tue prime esperienze di vita fatte nella “tua piazza”. Ti auguriamo di poterla condividere al più presto con chi perpetuerà il tuo cognome e sarà la quarta generazione dei Lucchetta.
Auguro a tutti coloro che avranno tra le mani questo racconto una buona lettura accompagnata da una profonda commozione, quale ho provato io.

Milano, 31 marzo 2014
Sofia Di Palo


DEDICATO A MIO FIGLIO FRANCESCO

Mio caro figlio, spero che questa dedica ti faccia piacere, perché è rivolta non soltanto a una persona che amo, ma anche a colui che è naturalmente chiamato a prendere il mio testimone nella traditio lampadis della nostra famiglia.
È l’eredità che ti consegno, nella speranza che possa essere tramandata ancora per molte generazioni. Si tratta non solo di una eredità di cose, come, per esempio, il grammofono Lesa che la mia mamma, la tua nonna, aveva comprato per ascoltare tutti i dischi che aveva, dai 78 ai 45 giri, ma anche un’eredità di ricordi, di storia. Erediti anche la genealogia, anche i nomi e le figure, le parentele e i ricordi, ma anche alcuni ritagli di vita vissuta, di una piazza che è stata, di una storia passata.
Lo so che non è facile sobbarcarsi sulle spalle un peso del genere, potresti anche scrollartene e dire che il passato è passato e che bisogna guardare al futuro, ma ti invito ad essere custode di queste radici, un geloso e attento custode dei valori che circondano e impregnano questi ricordi. Altrimenti andrebbero persi.
Leggi con attenzione questo libricino che ti dedico, figlio mio, e ti accorgerai che dietro ogni personaggio, dietro ogni fatto narrato si nasconde un valore che forse ti potrebbe arricchire. Spero che tu alla fine scoprirai di esserti assunto non un peso ma un onore, la grande responsabilità di perpetuare nel tempo la memoria di una famiglia, una lunga catena di cui tu sei l’ultimo anello.
Leggilo con attenzione, leggilo con pacata lentezza, un episodio al giorno, impadronisciti del mondo che sta dietro ad ogni riga, gustalo e digeriscilo, così che ti possa dare tutta l’energia necessaria per recuperare dalla pigra memoria anche i ricordi della tua vita, dall’infanzia ad oggi. In questo modo potrai intrecciare i tuoi ricordi con i miei e insieme tessere la trama delle generazioni che si perdono nel tempo, che solo così potranno ritornare a vivere.

Carlo Lucchetta


La mia piazza ricordi di un bambino cosentino


Introduzione

Cosenza potrebbe essere definita la città dai mille panorami. Da ogni luogo, nei dintorni immediati della città, che abbia un minimo di elevazione o un punto di osservazione particolare si può gustare una vista incantevole. Dal Castello, dal colle Triglio, dal colle dell’acquedotto, dal ponte Alarico, dalla chiesa di San Francesco di Paola, dal balcone naturale di Corso Vittorio Emanuele II, in zona Portapiana, dal colle del Cimitero.
Nel febbraio del 1988 ho accompagnato mio padre alla sua ultima dimora al Cimitero di Cosenza e, mentre gli operai facevano il loro lavoro di allestimento del loculo, mi sono affacciato verso la città e ho pensato: “Ti sei scelto un bel posto, papà!”
Mille panorami, mille vedute, mille scorci, mille inquadrature. Per tutta la mia infanzia e adolescenza sono stato una tesserina in questo grande mosaico, una lucetta in questo caleidoscopio di umanità, in questa città che ho scoperto pian pianino, partendo dalla mia piazza e poi sempre più in là, come le onde concentriche prodotte da un sassolino nell’acqua quieta.
Quand’ero bimbo vedevo quei piccoli aerei lontani nel cielo che viaggiavano veloci, erano rari negli anni ’50, e cercavo di immaginare chi ci fosse dentro e in quali meravigliosi posti stavano andando. La fantasia non riusciva a inventare una storia. Ora, quando sono in viaggio per andare a far visita alle tombe dei miei genitori, mi sorprendo a indovinare il nome di quelle macchioline di case che passano lente inquadrate dal mio oblò. Il mio volo low cost è in fase di avvicinamento a Lamezia e si abbassa di quota per mettere in moto la mia fantasia. Quel porticciolo forse è Cetraro, quella macchia più grossa di case deve essere Paola, se è così allora oltre quella catena di monti c’è Cosenza… forse, chissà.
Poi, quando mi ritrovo immerso nell’effervescenza della città, riconosco il traffico, il clacson del saluto, il via vai di gente, ma sempre più spesso mi trovo disorientato quando mi capita di andare oltre Piazza Europa, quando vado in Via degli Stadi a trovare la mia zia Pina. Una volta Panebianco era ai limiti urbani e qui terminava la corsa del bus urbano che di solito utilizzavano i soldati di leva delle Casermette. Ora è parte integrante della città che non si distingue più da Campagnano, da Roges, da Quattromiglia, da Castiglione scalo… è un’unica megalopoli.
E allora mi sono detto: “Devo salvare i miei ricordi dall’oblio, devo recuperare la memoria della mia piazza, devo rivedere con gli occhi del ricordo la mia vita e la mia città!”
La mia piazza è stata il luogo della mia infanzia, dove ho preso contatto per la prima volta con gli altri, con cui confrontarmi e con cui crescere. È stato il mio primo luogo d’incontro e quando l’incontro avveniva tra due caratteri compatibili allora diventava accostamento, se avveniva tra due personalità distanti allora diventava scontro. In ogni caso era sempre ricchezza, era sempre crescita, era consapevolezza dei propri limiti e delle proprie caratteristiche, durante un’età in cui è importante fare esperienza di contatto sociale.
I miei genitori non mi hanno mai rinchiuso in una campana di vetro, mi hanno sempre fatto sentire protetto anche quando ero affidato alla mia piazza. Tra famiglia e piazza ci deve essere stato un foedus di buone intenzioni, dal momento che i genitori erano sicuri che nella piazza ogni famiglia era naturalmente incaricata di proteggere e di redarguire, quando era necessario, tutti i bambini che nella piazza giocavano. Era un patto non scritto, ma sentito nel cuore di tutti.
Per noi bambini la nostra piazza era casa e palestra, era sicurezza ed esercizio, dove nessuno era escluso, nessuno emarginato, anche quando qualcuno cercava di fare gruppo a discapito di altri. Bastava una partita di pallone a sfaldare ogni tentativo di chiusura. Non c’era bisogno di darsi appuntamenti, perché ci si trovava tutti nella piazza, anzi si vedeva già dalla finestra chi era fuori e a che cosa stava giocando. Certe volte dalla finestra lanciavo l’avviso Ohi Camì, ca mo’ vìegnu! e Camillo mi rispondeva che mi aspettava. Io prendevo quell’ingombrante merenda e giù per le scale a giocare in piazza.
A Cosenza nuova, invece, più grandicelli, dovevamo darci un appuntamento, con ora e luogo precisi, altrimenti si rischiava di non trovarsi.
Eccomi, quindi, a scrivere di me e della mia vita, della mia città e della mia gente, ma voglio scrivere con gli occhi e con la mente di un bambino, con la meraviglia di chi scopre e con l’incertezza del lessico infantile.
Chi mi legge con una certa competenza si accorgerà che il mio, in buona parte, è un discorso paratattico, tipico dell’impostazione dei pensierini, che uso spesso l’imperfetto indicativo, anche quando sarebbe necessario il tempo presente o il congiuntivo e ripeto espressioni del tipo “c’erano, c’era” o il superlativo reso con la ripetizione dell’aggettivo, come “buono buono”, “alto alto” e simili.
Chi mi legge sia di ampie vedute e si concentri sui ricordi di un bambino cosentino. Magari scoprirà anche lui di essere dentro ancora il bambino che giocava con gli stessi giochi, che diceva le stesse frasi nello stesso dialetto. Scoprirà di avere anche lui una sua piazza, una sua via, un suo angolo, un suo quartiere che forse ha perso di vista nei meandri della memoria.
Lasciamo che venga fuori il bambino dentro di noi e lasciamolo giocare nella sua piazza.
Almeno per un po’.


Mi ricordo

Mi ricordo quando ero bambino, il quartiere dove sono vissuto dall’età di un anno in poi era come un’isola felice, una zona che circondava e proteggeva, tanto che i bambini che vivevano sull’altra riva del Crati erano visti come gli avversari di tante battaglie. Poi la scuola elementare aveva fatto da armistizio, perché nelle aule ci trovavamo insieme noi della Piazza Spirito Santo e quelli del quartiere della Massa, avvicinati da comune sorte. Ho ancora le fotografie che ci ritraggono tutti in ordine col fiocco ogni anno diverso nel colore. Già Garrubba e Cafarone sembravano quartieri distanti, troppo distanti per essere avversari da battere. Figuriamoci attraversare il ponte Mario Martire, che scavalca il fiume Busento ed è punto di unione della città vecchia con la nuova! Quella parte della città di Cosenza negli anni ’50 era per me così distante da sembrare nebulosa e misteriosa.
Quando i miei genitori mi imbacuccarono ben bene per portarmi a vedere il Circo, mi ricordo di aver fatto un viaggio lunghissimo tra le braccia di mio padre, che a piedi dallo Spirito Santo raggiunse quell’area in estrema periferia, dove si era sistemato il Circo, che sarebbe poi diventata Piazza Loreto. Corso Mazzini sarebbe stato più familiare solo nell’adolescenza, verso la metà degli anni ’60, quando si facevano instancabili passeggiate fino alla Standa e Bertucci o, al massimo, al “Colosseo”.
Mi ricordo che una presenza importante nel quartiere era Don Alfonso, il sacerdote della chiesa dello Spirito Santo, dove spesso facevo il chierichetto durante le funzioni e di cui spesso suonavo le campane, insieme con un altro bambino, afferrando direttamente il batacchio, dopo essermi arrampicato fino in cima su malsicuri gradini di legno. Da lì vedevo con un’angolatura diversa la mia piazza e la mia casa.
I miei genitori non erano molto praticanti, ma hanno sempre favorito le mie frequentazioni in chiesa. Mio padre era devoto a San Francesco di Paola e ogni volta che percorrevamo il ponte Mario Martire lo vedevo girare lo sguardo a destra, verso la Chiesa oltre il Crati, e fare il segno della croce.
Don Alfonso è stata la persona che mi ha fatto apprezzare gli ampi spazi: una volta, durante una colonia estiva, ci accompagnò in una gita a piedi all’acquedotto e da lì vidi il mio primo panorama sulla città. Mangiammo uno squisito purè di patate.
E che dire del fiume Crati, protagonista di ricordi belli e di ansie paurose?

[continua]


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