Opere di

Carlo G. Zizola


UNA SONATA DI SCHUMANN

Mentre una falce di luna spalanca
le mascelle d’ebano della notte,
dall’infinito che comincia
dopo l’ultimo lampione
una sonata di Schumann
si dilata sopra i tetti come fosse
appesa nello spazio, argine
alla decomposizione del tempo.
In una luce divisa, immagino
mani che scorrendo agili sui tasti
con nuove assonanze
dissolvono chiome arruffate
tra comignoli e persiane rotte
dalla nostra grammatica inutile,
o da una banale negligenza,
per scomparire poi
nella dolcezza e nella distanza,
oscillando in modo quasi perfetto.


A Jacques Prevert

NOTTE DI PIOGGIA (e di guerra) A BREST

Su interminabili rettilinei,
o brevi strade contorte,
il vento sferza
con la sua livida rabbia
forme disperate e goffe.
Cupe criniere scorrono sciolte
lungo il fronte del mare.
La notte ha il volto
di una pioggia senza tregua
che batte sul cuore della città,
su esigui ripari guastati
dal lezzo di cose morte,
rimasugli d’alghe
o avanguardie di sogni
maciullate dalla guerra,
che giunge dal mare
e la pioggia più non lava.
Nelle tenui luci
volti inquieti esitano
tra sonno e veglia,
vagano spostando candele,
ricadono in una cupa calma.
Sciami di finestre
si spengono riluttanti;
ascoltano, nelle ombre
dell’imbarcadero,
nelle folate che s’alzano
sul fragore delle onde,
il suono smisurato delle sirene.


IL POETA

Scrivo con lena,
scrivo senza scampo
e senza tempo;
scrivo ancora una volta
da un esilio, scrivo
a un mancato appuntamento,
alla verità immanente
o a quello che mi sovrasta.
Scrivo con pura indifferenza
ciò che mi aggrada
o mi tormenta;
scrivo spettrale testimone
di una oscura reminescenza.
Scrivo del tutto e del nulla
che accade,
della memoria
che allerta i sensi;
scrivo alla vita
infitta nel suo dilemma,
scrivo di casi, tempi:
scrivo e m’acquatto
tra pareti e ghigni.
Scrivo per un sé esistente
che si perde, che sa
e non sa, e avanza
cautamente.


GIARDINI DI NOTTE

Nell’attesa che tra nuvole perplesse
l’isteria delle stelle si plachi,
la notte s’è stretta
attorno alle panchine,
gli ultimi lampioni arretrano,
la luna getta parrucche dorate
sulle mute sterpaglie del tempo,
le undici appena
sotto l’umido delle foglie.
Dopo ondate di silenzio
e un abbaiare stizzoso,
qualcuno inizia a cantare:
un barbone, ubriaco forse,
che si porta verso il fiume
come fosse il migliore
dei cammini, gli occhi reduci
dalla solitudine dei treni
e dal liscio gong della sorte.


DI FRONTE AL MARE, D’INVERNO

Pezzi di luna sugli scogli.
Così si rivela il giorno,
con tutto quello che può
accadere, con il suo ordine
faticoso e imperfetto;
ancora rimpiccioliti dalla notte,
alberi e case scorrono
nella voce metallica del tempo.
Una vecchia osserva dalla finestra
la vita che le sfila davanti, un uomo,
il blu tramortito del mare
in attesa di qualche evento;
nel vuoto indifferente,
un’impronta ridesta i sensi,
il desiderio di una presenza,
di un contatto tra un momento
e l’altro, mentre il respiro
s’addensa e va a finire
dentro il cielo,
lontano dal mondo.


COME UN VECCHIO TRAM

A notte fonda,
il treno svanisce rapidamente,
gli ultimi amanti vanno
con una rosa morta in bocca
tra violini di latta,
freddi raggi e sguardi
che salgono alla luna
fino a dissolversi
nella volontà immobile
di un mattino livido
come un presagio.
Ma nulla sorprende ormai:
la fenice muore e rinasce
ogni giorno, e il mio amore
corre verso di te
con le pupille spalancate
su una magica lanterna
di suoni e luci, sferragliando
come un vecchio tram.



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