Il silenzio a me caro, non posso lasciarti che quello

di

Carlo Bramanti


Carlo Bramanti - Il silenzio a me caro, non posso lasciarti che quello
Collana "I Gelsi" - I libri di Poesia e Narrativa
14x20,5 - pp. 86 - Euro 10,00
ISBN 978-88-6587-4615

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Le immagini di copertina, di pagina 18, 35, 62 e 65 sono di Carlo Bramanti

Le immagini di pagina 50, 70 e 75 sono di Lucia Campisi

Le immagini di pagina 10, 15, 25, 29, 79 e 82 sono di Tony Paratore

Il frammento di pagina 57 è stato scritto da Daniela Lampasona

La poesia di pagina 73 è di Morena Fanti

La poesia di pagina 74 è di Lucia Russo


Ho un ultimo castello di carte da costruire sulla spiaggia deserta e ho fatto un patto col vento: finché non avrò finito di stringerla per l’ultima volta, di dire addio all’amore, lui non soffierà. Poi il mare si riempirà di picche e cuori, e io andrò spalle al tramonto verso la mia coperta di stelle, lasciando in ogni orma effimera un verso di neve.


L’uno non poteva salvare l’altra, ma per un lungo momento ci abbiamo creduto, Dio se ci abbiamo creduto… ed è stato bello, magico… è stato vivere.


L’inchiostro che conforta, aiuta.
La parola, se sincera, viaggia anche con un’ala ferita.



Il silenzio a me caro, non posso lasciarti che quello



Il suo sguardo
raccoglie
i luoghi che ho visto
temuto, sognato
e mi esplode
nel petto
come un tramonto
di vetro.


Ci sono viaggi che non puoi dimenticare; luoghi di essenze, di sguardi e persone mai incontrate che sai parte di te. Ci sono viaggi che ti restano dentro perché da lì partono e tra le righe dell’anima arrivano, così, senza clamore; viaggi in cui ci si sente soli insieme, mentre tutto ti cade attorno.


(Prima di incontrarla)

È sorprendente.
Basta stare
immobili
in un cantuccio
e il mondo prosegue
come se non esistessi,
la vita
ti scivola accanto
estranea
come un rivolo
di pianto
sulla guancia già scarna.
L’Amore
è solo uno spettro,
che ora ti sfiora,
ora ti illude,
uno spettro
dalle dolci fattezze
che udito
il cuore in catene
di nuovo
guizza altrove.
Il resto
è silenzio ancestrale,
storie celate,
lame sparse
di perdute carezze
nella notte
illune.


Il vecchio era lì, inginocchiato, a fissare il veliero impresso nella mattonella del bagno; lo spingeva con la mano come se lui stesso fosse parte del mare che sentiva nella sua testa. Era smunto, con pochi capelli bianchi e un pigiama a righe consumato. Gonfiava di continuo le guance, come Armstrong, e un po’ lo invidiavo: non aveva certo bisogno di andare allo specchio ogni mattina per sapere cos’era lui in realtà. Era semplicemente l’onda, il vento, e avrebbe spinto quel veliero verso un’isola incontaminata dove tutte le anime inquiete che gli stavano attorno, compresa la mia, avrebbero trovato pace. Sì, l’avrebbe fatto, lui ci avrebbe salvato tutti, così diceva. E poco importa se gli davano del matto.
“Salite sul veliero, venite con me”, gridava, mentre una donna offriva caramelle al muro e un giovane mezzo nudo dirigeva un’orchestra di cicale inesistenti. Nel nostro spazio c’erano tutta la disperazione della vita e la gioia di non poterla più capire fino in fondo. C’era l’odore di alcol degli ospedali, la Madonna nel corridoio sudicio che guardava altrove. C’era l’ex equilibrista Luca, alias Mocio Vileda, che adesso, a settant’anni, cadeva e si spalmava a terra con disarmante regolarità. C’erano il sarto e la donna senz’ali. E poi lei, l’Amore, lei, sopra e oltre ogni effimera cosa di questo mondo.



Lei,
mi donava sospiri
dove cogliere i secoli
da noi non vissuti;
sempre, per sentirla vicina,
io cercavo
intarsi di parole
nei cassetti
obliqui
dell’anima,
ma non riuscivo
a pescare
che sorrisi nebulosi,
sofferti
ai confini del nulla.

Adesso trovami,
illuminami
in silenzio.
Niente domande.
I tuoi capelli
mille volte
mi sono apparsi
in sogno
ed erano sempre
morbide luci
d’un quieto tramonto.
Adesso trovami,
illuminami
in silenzio.
Starò immobile,
nell’attesa dell’onda
dal tuo al mio petto,
Amore
che supera lo scoglio
fino al ramo dell’anima
non visto;
starò immobile
in te
così che tutte le cose del mondo
siano per me
ancora
fragile incanto.


Ho conosciuto Maria in questo manicomio, e da allora sembra sia passato un secolo.
I lunghi riccioli biondi le incorniciavano la faccia pallida, smagrita; le gambe accavallate provavano a sedurre il vuoto nel quale lasciava cadere i suoi sguardi di mare. Restava così per ore ed ore, in un gelo soffocante. Sembrava non voler più chiedere nulla alla vita, che giunto il buio abbandonasse il suo corpo pieno di tagli per posarsi sulla seconda luna, quella che gli altri non potevano vedere. Io rimanevo a fissarla, incantato, per tutta la sera. Sapevo poco di lei, ma la notte cercavo le parole per farle capire che su di me poteva contare, per farle comprendere che anche se lei non aveva più nulla da dire alla vita, la vita, attraverso me, poteva ancora dirle qualcosa di sensato, in cui conforto e speranza non erano un miraggio.
Volevo essere la sua oasi, il suo salvagente, e che lei fosse il mio.
Lei, in quel camice bianco di silenzi, era tutte le strade che io non avevo percorso, le lunghe estati che non avevo vissuto. Lei, l’unico sogno dopo il risveglio, nel fottuto deserto di ciò che era andato perduto.
Una sera – era la vigilia di Natale – la vidi sedersi davanti alla finestra nella poltrona un tempo bianca in cerca della seconda luna. I suoi piedi nudi erano nervosi, dondolavano senza sosta al ritmo del pendolo dorato che aveva scandito ogni mio fallimento; ma ora il pendolo dell’orologio dava un suono ai suoi piedi, ai suoi sguardi fino a trasformarli in una voce fuori dal tempo che a me giungeva chiara, quasi suadente.
“Ti prego, salvami”, sentivo. “Ti prego, salvami”.
Non so come, a quell’eco, ritrovai forza e coraggio. Mi avvicinai a lei, ero lì, stavo quasi per toccarle la mano; poi la follia, le urla di un uomo ricoverato il giorno prima, spezzarono l’incanto. Maria si alzò dalla poltrona e rispose di rimando a quelle urla, a quel mancato allunaggio, colpendo con un pugno la finestra. Vidi il vetro frantumarsi in un rallenty interminabile, un incubo reale inondato dal sangue di Maria. Una delle bestie col camice azzurro accorse subito, colpì la mia ragazza più volte alla testa con un bastone lungo e nodoso. Vidi sangue, sangue dappertutto. Dio sa se volevo reagire ma, come spesso accadeva, ero paralizzato. Mi buttai sul letto disfatto, la testa sotto il cuscino per sfuggire alle urla. Al mondo. Mi addormentai così.
Quella notte sognai: strappavo il bastone nodoso alla bestia vestita di cielo e lo scagliavo contro ciò che restava del vetro; con in braccio Maria, uscivo dalla finestra per portarla sotto i raggi della seconda luna.
“La vedi, la vedi anche tu?” Maria sussurrava, e la sua voce, piena di sorpresa, era limpido ruscello.
Poggiai il suo corpo leggero sull’erba fresca dove campeggiava, solitaria, una margherita priva di due petali. Attesi tutto il biancore della luna affinché curasse i tagli della mia principessa, e le facesse ritrovare per intero la sua anima. Attesi ancora e ancora, finché la luna pietosa non ci fissò per colmare il vuoto e fare di noi quei due petali ai confini del mondo.



Ricordo uno strano quadro tra le mani di un paziente peruviano che rimase nel nostro manicomio per una settimana: c’era raffigurata una mano lunga e affusolata con le linee del cuore, della testa, della fortuna e della vita in bella evidenza.
C’erano anche la linea epatica, del sole e l’anello di Venere.
Le linee principali erano disposte in modo da formare una M, che il tizio poi mi disse poteva interpretarsi come le iniziali del motto latino: Memento mori.
Lo chiamavano Birù e per tutti e sette i giorni non si staccò quasi mai da quel quadro e da alcune cordicelle colorate che estraeva dalla tasca come un prestigiatore.
Con quelle cordicelle era solito fare dei nodi da lui chiamati Quipu.
“A cosa servono quei nodi? E quel quadro, cosa rappresenta?” gli chiesi un giorno, vinto dalla curiosità.
“Quadro e nodi sono la mia storia, il mio, il tuo futuro”, rispose con voce roca.
Sembrava non parlasse da anni, e forse era proprio così.
A una corda principale erano attaccate, a guisa di frangia, delle cordicelle primarie disposte a gruppi, ciascuna delle quali aveva, a sua volta, gruppi di corde secondarie. Le cordicelle primarie e secondarie avevano una serie di nodi ed erano variamente colorate. Secondo Birù, il futuro di ogni creatura sulla faccia della terra doveva scaturire dai nodi e dai colori.
Le corde gialle, ad esempio, simboleggiavano l’oro, la fortuna, quelle rosse una battaglia dura da sostenere.
Una notte mi alzai e sottrassi il quadro dalle mani addormentate di Birù.
Lo guardai per circa un’ora e alla fine, non so perché, prima di rimetterlo al suo posto, sovrapposi la mia mano a quella del quadro.
Coincideva in tutto e per tutto, era la mia mano.
La finestra era di nuovo spalancata. Ai miei piedi, caduta dalla tasca dell’amico peruviano, una cordicella rosso sangue spinta dal vento muoveva all’impazzata la testa come un verme infernale, come l’angoscia che sentivo scoppiarmi nel petto.

“Di chi è questa mano, Birù?”
Era l’alba. Il mondo, quel giorno, sembrava non volersi più svegliare.
“È di tutti, ragazzo. Dicono assuma la forma della mano di chi per ultimo tocca il quadro… è magia, Amico”.
“Sì? E ora come leggeresti quella mano?” domandai, toccando di nuovo la tela.
“È la mano di un uomo innamorato e al tempo stesso smarrito. Un artista sensibile. È l’ala di qualcuno che pensa: è stato bello sognare, ma io non sarò mai come gli altri”.
“Sai tutte queste cose e non parli con nessuno? Sei sempre muto come un pesce. Che ci fai in questo posto?”
“Coloro che sanno, non parlano; quelli che parlano, dimostrano di non sapere. E ti svelo una cosa: i pesci gridano e cantano anche se l’uomo non li sente. Io non utilizzo le corde vocali, grido e canto con le mani. Forse sono un angelo mandato qui per alleviare le tue pene, forse un pazzo che dice cose senza senso. Scegli tu”.
“Saresti uno strano angelo”.
“Tutti gli angeli sono strani. Ricorda, Amico: io e te siamo pietre cadute dal cielo e se prima di sfracellarci al suolo e diventare polvere qualche stella ci illumina, anche solo per un istante, non possiamo che ritenerci fortunati”.
“Caro, sapiente Birù, allora svelami la verità su di me e sul mondo…”
“Raramente la verità è tutta visibile, contenuta nei fatti così come li vediamo; essa, per rivelarsi in maniera completa, ha bisogno dell’immaginazione dell’uomo, della sua invenzione. Immagina. Inventa, ragazzo”.
Fu un attimo. Dalla finestra mi parve di vedere un albero che non avevo mai visto; immaginai dei bambini che lo circondavano, e più si avvicinavano al tronco più esso fioriva: fiori di rosa e di perla che nessuno, a parte me, avrebbe scorto.
Dopo quelle parole non lo vidi più. Ma sperai intensamente che Altair, con la sua luce bluastra, l’avesse avvolto. Poi, pensai alla mia, di stella.



Dove sei Maria? È da due giorni che non ti vedo, è da due giorni che non vivo. Quando ti guardavo sentivo di nuovo la fiamma della vita crepitare nelle mie carni, nelle mie vene bucate da ogni tipo di eccesso alla ricerca di un paradiso che ho trovato solo nei tuoi silenzi. Cosa ti hanno fatto? In quale oscuro e sudicio recesso ti hanno buttata? Se mi sforzo riesco persino a vederti, mentre strisci nell’oscurità verso l’ultimo raggio della tua luna; vedo che lo afferri con la mano piena di tagli e lo stringi al cuore come un amante perduto e poi ritrovato, sperando che lì penetri fino a donarti un attimo di pace.
Tu, Maria, strisci sulla polvere e non sai nulla di me; non puoi sapere che sei riuscita a fare quello che psicofarmaci, alcool e medicine varie non sono riusciti a fare da una vita: gli attacchi di panico grazie a te stanno diventando un pallido ricordo, e quel senso di fallimento che mi porto dietro da quando ho perso il lavoro va attenuandosi ora dopo ora dentro un piccolo grande miracolo.
Ma viviamo in una fragile bolla, lo sai. E io ho bisogno dei tuoi occhi, della tua presenza per non ricadere in quel pozzo senza fondo.
Sai, Maria, ero un bravo elettricista prima del corto circuito, prima che i nervi crollassero come un castello di carte dopo la morte di mia Madre; e sento di esserlo ancora perché riconosco l’impianto più bello che Dio ha creato. Non è la seconda luna che illumina il tuo viso nelle notti più lunghe; è un relè nascosto nel tuo cuore, sono i fili aggrovigliati della tua anima che fanno accendere la seconda luna e il cielo intero, riempiendolo di strane lampadine a cinque punte che noi pazzi chiamiamo stelle.
Non so nemmeno se ti rivedrò, se potrò darti questa lettera. Ma forse un giorno accadrà un altro piccolo miracolo e queste parole, non so come, ti giungeranno come una carezza, quella che non ho mai saputo darti.
Amore non è una parola da urlare ogni due secondi, ma una parte di se stessi da donare negli anni, e io donerei quel po’ che ho per farti felice.
Quando verrà la prima pioggia, pensa a me, al dolore lavato via, alle nostre anime libere di scorrere come gocce silenziose sui vetri opachi della finestra mai aperta, gocce che possono incontrarsi una, due, mille volte. Pensa, scivola in me e non ti sentirai più sola.

Maria entrò proprio nel momento in cui terminai di scrivere, condotta per mano dalla stessa bestia che due giorni prima l’aveva picchiata. Aveva la testa fasciata male, gli zigomi gonfi ed era stata pesantemente sedata. Quando la vidi entrare nascosi subito la lettera in tasca. L’avevo scritta con tutto l’amore e la sincerità di cui ero capace, eppure non ebbi il coraggio di dargliela. Ma lei era di nuovo lì, a un passo da me e io sentii qualcosa di simile alla felicità.

[continua]


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