Dove un tempo luceva l’essenza del ricordo

di

Carlo Bramanti


Carlo Bramanti - Dove un tempo luceva l’essenza del ricordo
Collana "I Gelsi" - I libri di Poesia e Narrativa
12x17 - pp. 60 - Euro 7,00
ISBN 978-88-6037-8385

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In copertina illustrazione di Elisa Serena
All’interno illustrazioni di Elisa Serena (pagg. 46, 48, 50, 56) e Ketty Muscas (pag. 22)


Dove un tempo luceva l’essenza del ricordo


come assopiti
viaggiamo

già soli

dove un tempo luceva
l’essenza del ricordo


Tornavo da scuola con la mente stanca ma piena di speranze. Nella tv accesa, in bianco e nero, lo strambo signor Bonaventura e la prodigiosa macchina per cucire Simac davano un saggio delle loro capacità. Io ancora con lo zaino Invicta in spalla e l’Uni Posca blu in mano, tu da sola, china sul lavandino a lavare i panni, in una luce soffusa rubata a un sogno. Un tuo sorriso e ti spiegavo il mio universo, cosa era successo a scuola, poi di corsa nella stanza da pranzo, a fantasticare su giocattoli che temevo di rompere, dinanzi a un burattino che un po’ m’impauriva. Pian piano tornavano tutti, tutti i colori dell’arcobaleno, la casa si riempiva di sussurri e il tempo fermava, tra le tue mani, una fragranza dolce e lontana.


Un bel dipinto. Questo sembra la vita, fino a quando il dolore non ti tocca. Un dipinto in cui vento e pioggia sferzano la schiena nuda di un uomo senza volto, sulla soglia del tramonto. Poi, non comprendi come, appaiono dei lineamenti e cominci a tremare, perché ti accorgi, anche se fai di tutto per convincerti del contrario, che sono proprio i tuoi.
Inizio a battere sui tasti a cinque giorni dal mio trentaquattresimo compleanno, in quel disordine di fogli e libri che conoscevi bene. Nel caos c’è l’ordine che mi contraddistingue, ti dicevo sempre, ma tu lo capivi che era solo una delle tante scuse che accampavo per far trionfare la paura di crescere, scortata dalla solita svogliatezza.
Ora tutto, dentro e fuori di me, sembra perso, in bagagli di gioia e polvere.
Il sole malato si nasconde, e più ci penso più mi convinco che, di tanto in tanto, sparisce unicamente per venirti a trovare, sui campi immensi e dorati nei quali adesso corri scalza, senza alcun dolore. Le sensazioni che provo quando ti vedo in sogno sono indescrivibili, Mamma, fanno galoppare il mio cuore di eterno Peter Pan in altre realtà, dove il senso delle cose è chiaro e ha un solo nome: Amore.
In queste realtà, la terra bagnata dalla pioggia che stavamo in cucina ad ascoltare, emana un odore d’infinito, pian piano si ricopre di petali caduti dai mandorli in fiore.
Sembra nevichi. Ogni suono viene attutito, valorizzato e laddove il silenzio sboccia, tutto parla dei nostri giorni assieme, delle carezze al cane, del tuo continuo preoccuparti per le mie difficoltà nell’affrontare la vita. Quel vuoto che da tanti anni mi soffoca diventa sbiadito ricordo, niente mi fa male perché so che a un passo c’è il tuo sorriso, il tuo abbraccio indissolubile.
Peccato che i sogni finiscano, che durino così poco. Peccato che i fiori appassiscano, dopo aver illuminato archi di vita di coloro che sanno vederli. Ma il senso resta lì, a un passo, “l’essenziale è invisibile agli occhi” qualcuno ha scritto. E così non mi resta che volare con gli occhi della mente, nonostante il buio scenda nei miei pensieri a ogni risveglio e le strade si confondano in una vertigine senza fine, che schiude le porte a solitudini più comuni di quanto si possa pensare.
Come si fa a tornare alla vita di sempre, dopo quello che è accaduto?
La rassegnazione subentra.
Passano i giorni, ma la ferita non si chiude né mai potrà rimarginarsi.
Però non piangerò, perché l’ho già fatto quasi trent’anni fa, quando strapparono un braccio a Goldrake, ricordi? Non piangerò, Mamma, perché tu mi hai detto di non farlo alzando un dito, prima che la luna ti rapisse, in un gelido giorno di Gennaio e di mandarini maturi, sotto foglie da cui pendevano gocce ancor prima che dai nostri occhi.


Ti ho colto tre splendidi narcisi bianchi con un cuore giallo acceso.
Oggi più che mai, sento il bisogno di scriverti, ed eccomi qui, chiuso nella mia piccola stanza, in compagnia solo di questi fiori e di te.
La finestra è chiusa, la dirimpettaia pettegola stavolta non può vedermi.
Mi sono sdraiato sul letto, poco fa, accanto al crocifisso rosa di Padre Pio che baciavi prima di addormentarti, e ti ho percepito, ho risentito quel soffio lieve sulla guancia.
Quando accade, non cerco spiegazioni logiche. Subito, col cuore in gola, immagino la tua mano: una carezza travestita da soffio da chissà quale universo. A volte mi succede nel bel mezzo della notte e ti chiamo a voce alta, finendo per svegliare tutti qui a casa. Poi riprovo a dormire, ma quell’invisibile carezza ogni tanto torna, e i pensieri svaniscono, si abbandonano al senso delle cose.
Spero solo che il profumo di questi narcisi possa arrivare fino a te.
Stasera rimarrò a casa, a scrivere. John Lennon mi sussurrerà di un mondo diverso, migliore, mentre l’odore penetrante dei petali si confonderà con quello del mare che vedo la mattina, passeggiando da solo.
Le stelle di giorno si nascondono, ma lasciano che le acque cullino i loro infiniti riflessi.
Non sono che un riverbero in attesa della sua stella.
Mentre aspetto, ascolto il silenzio e le onde custodi di mille luci e segreti.
Perché le persone si comportano così, Mamma? Perché non fanno altro che usarsi a vicenda e promettere cose che non mantengono mai? Lo confesso: ho il cuore pesante, ferito da una ragazza che credevo diversa. Il ‘Ti voglio bene’ della gente non dovrebbe essere come un comune prodotto da comprare al supermercato, con dietro la data di scadenza, dovrebbe assomigliare al suono delle ali di una farfalla, che vicina a un petalo ne assume il colore. In questo momento vorrei avere un millesimo della tua forza e del tuo coraggio, per affrontare l’insensibilità di chi mi sta attorno, un’armatura spessa per non fuggire subito dentro una scatola di tavor.
È da una vita che fuggo da me stesso, tu lo sai… Per andare dove? Non c’è luogo in cui io non desideri d’essere altrove.


In Tv, lo sento dalla mia stanza, c’è Christian, uno di quei cantanti melodici che tu amavi tanto.
Mentre Papà dorme, canta la tua canzone, “Cara”, ed io devo subito rammentare il tuo dito alzato, la tacita promessa…
Chiuso nella mia stanza, continuo a pensare e a scriverti, lontano dalle bugie di un mondo che tutto basa sul denaro e sull’immagine.
Un conato di vomito. Chiudo gli occhi. Fuori ha iniziato a piovere.
È nella solitudine che un uomo perde e ritrova se stesso. Sì, saranno stropicciate… ma basta un alito di fantasia per le mie ali di carta. E sono ciò che avrei voluto essere, volo da te Mamma, che seduta, cuci i ricordi della nostra vita insieme. Sorridi: hai tra le mani una stoffa di mille colori; io corro libero, fino al mandorlo in fiore, e so che mi basta voltarmi per saperti sempre con me.
Anche oggi, ho scritto molto: quest’ultimo frammento, lo leggi tu?

“Vedevo quel bambino quasi tutti i giorni, lo vedevo scendere le scale in un delirio ogni volta diverso, chiuso in un mondo che per gli altri non aveva porte. Biondo, occhi azzurri e incredibilmente alto per la sua età, si appoggiava, ma non certo al corrimano che noi tutti vedevamo; sembrava piuttosto spingere una maniglia dorata ed entrare in un sogno di creature incantate che bisbigliavano, invece di urlare come sua madre. Lei non poteva capire il suo mondo, i graffi sulla porta del vicino, la solitudine racchiusa nei suoi grandi occhi di mare; lei sapeva solo urlare, perché lui si attardava sulle scale a discutere con elfi e gnomi e chissà quali altre fantastiche creature. Nell’oscurità dell’andito, immerso nella mia di solitudine, riuscivo per un attimo a vedere ciò che lui e io desideravamo: un grande faro al tramonto, un faro che ci guidasse sulle acque vermiglie della vita”.

Tu e questa persona, entrambe madri. Ma tu mi hai sempre cullato, incoraggiato, sostenuto tra un sorriso e l’altro. Tra uno scalino e l’altro, quanto avrebbe da imparare questa donna da te!


Ho mal di testa, ma continuo a pensare.
Il cuore è più tranquillo oggi, non accelera e non salta battiti.
Un uomo non dovrebbe mai perdere l’abitudine di affacciarsi dalla propria finestra.
Io l’ho appena rifatto, dopo secoli, e ho ritrovato con la mente gli stessi bambini d’allora che giocavano a pallone, ho risentito il tuo odore e quello dei piatti squisiti che solo tu sapevi creare.
Un uomo non dovrebbe mai perdere l’abitudine di affacciarsi dalla propria finestra…
Può rivedere quel cortile immenso in cui spesso ha lasciato correre le sue solitudini, le sue mille fantasie. Basta guardare fuori, il ramo della palma dove i passeri costruivano il nido, fare un bel respiro e chiudere gli occhi, basta questo e torna l’essenza della magia di allora, la tua voce, il rumore di pentole nelle quali per gioco ci si specchiava mentre il sole carezzava il cuore, sussurrando “Tu sei in grado di far tutto, pure di cambiare il mondo”.
Poi ti giri e vedi tuo fratello disegnare un’astronave per raggiungere pianeti inesplorati e migliori, sull’incerata di rose bianche che mai appassiranno, nulla ti è precluso; sì, forse dietro l’angolo c’è perfino una principessa da salvare, dentro un abito candido tempestato di riflessi Swarovski, e lei non vuole altro da te che essere ascoltata, puro e semplice amore, quello che ti sgorga dagli occhi nelle notti silenziose e illuni.


Ciao Mamma.
Un giorno, non lontano, mi ritroverò in un mondo alla poesia abbandonato, dove l’odio sarà devitalizzato; e, su You Tube, i ragazzi lasceranno al matto di turno non più una sberla, ma
un iris bianco.


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