Opere di

Carlo Antonio Bertolo


Consigli

Quando gli eredi t’aman troppo in vita
non lasciar nulla dietro la tua morte
perché i quattrini son la cosa ambita
ed è per essi che ti fan la corte.

Se t’evitan perché tu sei pezzente,
tanta più pace ti verrà concessa
sfuggendo all’occhio avido di gente
cui tu non vali il tempo d’una Messa:

non troveran ragion per litigare.
Se male o benedetto tu non sei
senza rimorsi te ne puoi tornare
in cielo a passeggiare con gli dei.


L’alternanza

Volea la tradizione
la donna sottomessa,
senza una sua opinione
come se fosse fessa.

Emiser la sentenza
che costola d’Adamo
fosse di discendenza.
Com’esca appesa all’amo,

onde scalzar lo stato
del patriarca eletto,
lei che ci ha combinato
entro il calor del letto?

Con l’arma della scienza
la donna, piano piano,
sfatato ha la credenza
prendendoci la mano:

guardando al comunismo
le brache ci ha calato,
così col femminismo
c’impone il matriarcato


Pesi e misure

Da Pontida il Senatur urlava:
“Vogliam la secession, Roma ladrona,
ricorda che la Lega non perdona!”
e il becero padano l’acclamava.

Possiam oggi azzardar: “Lega ladrona?”…
perché mi pare l’abbian pizzicata
ad ingozzarsi con la marmellata.
Chissà se Roma oggi la perdona!

10 aprile 2012


Paure

S’è fatto un gran parlare di Buddismo,
di religioni orientaleggianti,
perfin l’indottrinarsi d’islamismo
spaventa alquanto i cristianeggianti.

Credi, non temo molto il sincretismo,
non penso inquini mai una vera fede.
Temo semmai di più il sincretinismo
dell’ignorar ch’ovunque ha preso piede.


Sul senno di poi

Son sempre giuste le scelte che fai
perché non sai se nascondano guai,

purché siano il frutto di convinzione
non ignorando l’altrui opinione

e potrai dire che furo sbagliate
soltanto quando le avrai consumate.

Quella facezia sul senno di poi
è un’idiozia, ma resti fra noi:

per i saccenti, lo sai è destino,
tu solo al mondo puoi esser cretino.

È la saggezza espressa ad orecchio
da chi per strada s’è perso lo specchio.

Maggior sapienza al mondo non c’è
di chi cretino lo è più di te.

Il vero saggio è chi sa consigliare
come quel danno si possa sanare.


Strambotto

Scendi dal fico e pensa al ristorno!
Tu non vorresti, ma il mondo reale
che a volte vuole vederti dintorno,
dove affannato ti scavi le scale
per migliorare il tuo squallido giorno,
ama soltanto il tuo volto virtuale.
Se l’accontenti ti serve il contorno,
ma quel che sei a lui proprio non cale.


Elogio dell’ignoranza

Ci fu qualcun che disse:
“Possiedi l’argomento,
vedrai che le parole
da sole ti verranno”.
Ma se non le conosci
dimenticò di dirti
che fanno solo danno.


Versi perversi

Un dì, volendo fare il contadino,
mi misi a rimestare fra il letame
del mio composto organico in giardino.

Mentre voltavo e rivoltavo strame,
mi resi conto quanto sia cretino
l’essere umano quando, per la fame,

si alza incavolato ogni mattino
per lavorare e guadagnarsi il pane.
Perché non fare come il lucherino,

pensai tra me, che mi cinguetta accanto
se a governarci in fondo è poi il Destino
e non lo Stato che ci opprime tanto?...

Pensieri scemi che san di concime,
ma tanto, pure questo è risaputo
che a ragionar non siamo delle cime.

L’uomo non è immortal, ne conveniamo,
per questo sarà poi ‘terra da pipe’,
ma uccel che mi sberleffi da quel ramo

non hai avuto accanto a te Santippe,
neppur lo Stato a toglierti il pastrano
e se ne frega se ti vien la grippe!

Dio non m’ha fatto nascer con le penne
ma nudo come il verme del composto
e per campar devo drizzar le antenne.

“A lavorar devi essere disposto
– mi disse un giorno Lui con far solenne –
sennò per te qua in Terra non c’è posto”.

Fu allor che scelsi quel che mi convenne
e immersi la mia vita nel delirio
di quel denaro che poi mi sostenne.

Confesso: fu soltanto un gran martirio;
fu la condanna dell’ergastolano;
forse fu inganno come litargirio.

Strabuzzo gli occhi e cerco nella mente
cosa che come te m’abbia affrancare
da questo tormenton che immantinente

e fino a morte devo sopportare,
ma il mio pensiero vaga inconcludente
e allora sfogo il cruccio in poetare.

Non tutti sanno che, per certi versi,
facendo a pezzi pure la sintassi,
scriver si può di tutto, anche i perversi

pensieri nostri e i sogni dell’occulto:
gioie, patemi, vuoi speranze e spassi
e, con l’adulazion, perfin l’insulto.

Dante, l’Ariosto, il Tasso ed il Tassoni
con il Boiardo dicon come fare
a imbastir asole e attaccar bottoni

a quest’abito uman chiamato: “Storia”.
Cose non vere assemblate a caso:
dei rimasugli appesi alla memoria.

La mia cicuta bevo non invano,
mentre con amarezza e delusione
verso il traguardo arranco piano piano

e quello che dell’uomo è la passione:
questo marcir fetente sotto il naso,
spargo proprio nel dì dell’Ascensione.


Sopravvivenza

Se manca d’umorismo chi è al governo,
la libertà è s’una brutta china:
e dalla neve, quando vien l’inverno,
verrà travolta sotto una slavina.

Se chi comanda è gente poco seria
spoglia lo Stato come fosse roccia.
Di tasse, di balzelli e di miseria
senza un ombrello sei sotto la doccia.

Mungon la vacca con autorità;
ti svuotano la borsa della spesa
come chi sa esaltar la povertà
per indorar gli altari d’una chiesa.

Ricorda, amico, che per non schiattare
codesta gente tu dovrai driblare.


Dagli Appennini alle Alpi

L’Italia, se non sai,
ricca di monti è assai.

Valea per tre quel grande: …
le tolse le mutande.

Poi ne rimase uno: …
le propinò il digiuno.

Ora che abbiamo Letta
ci lascerà in bolletta.


Eufemismi

Quando s’ammira il corpo d’una donna
ad abbagliarti sai ch’ è solo il soma.
Per non esser volgar usi un idioma
che alluda a quel che sta sotto la gonna.

Se scegli l’alfabeto hai da sapere
perché la ‘a’ e la ‘b’ siano un assioma:
la ‘A’ a gambe in su è un perizoma
e ‘B’ è la sezione del sedere.

Il ‘C’, è solo roba tua, meglio non dire.
Chi non lo sa non ti potrà capire,

così sull’abbiccì puoi disquisire
senza che dignità n’abbia a soffrire.


Napoli

Per un parcheggio a Napoli
uno deve aver naso,
lo trovi dentro i vicoli
ma mai per puro caso.

Spuntar vedi un cappello
con tanto di visiera:
“Ecco – ti dici – quello
parcheggia a borsanera”.

Attendi che ti dica:
“S’accomodi dottore!”
Invece ti rubrica:
“Avanti professore!”

Oggi che i laureati
si sprecano a gogo
non siam meravigliati
se tanto qui si può.

Un dì con soggezione
ti davan del dottore,
oggi, per l’inflazione,
ti chiaman professore.

Altrove, senza pelo,
sei un povero cialtrone;
qui, con tanto zelo,
ti offrono poltrone.

Nell’inventare titoli
pei suoi connazionali,
che siano grandi o piccoli,
Napoli non ha uguali.

Quello che qui fa stato,
ed è punto d’orgoglio:
fregarti per un piatto
di ‘bubbole’ allo scoglio.


Digiuni

Tre giorni senza bere,
trenta senza mangiare,
soltanto tre minuti
senza mai respirare

lo sanno bene tutti
ch’oltre non puoi campare
i guru più evoluti
un po’ di più san fare.

Lunghi digiuni astuti
del bere e del mangiare
per farci poi cornuti
s’affrettano a vantare

politici più attenti
che san turlupinare
senza degli argomenti
più logici da usare.


Menu del giorno

Lessi e rilessi strabuzzando gli occhi:
“Cicale con contorno di finocchi”.

Al ristorante esposto era in vetrina
questo menu degno dell’acquolina.

A stimolar papille e fantasia
mancava un buon bicchier di malvasia.

Scusate il divagare del momento,
ma lì per lì pensai al Parlamento.

Oggi in Italia il maggior diletto
l’hai dai tribuni ch’urlano dal tetto

e camminando stavo molto attento
ad evitar dei cani ogni escremento.

Quelli che ieri ebbero successo
e usavano vocaboli da cesso,

lasciano il posto al grillo del Collodi
sputasentenze e cacciator di lodi;

chissà se almeno lui dal portafoglio
ti caccia fuori soldi e non l’imbroglio.

Dice la gente in tren mentre tu viaggi
che questo è il risultato dei sondaggi.

Sarà anche vero, ma vedremo poi
s’è senno che frustrò anche gli avi tuoi,

se anche lui davanti a certi fati
non faccia poi la fin degli evirati.

Temo che dopo resti solo il vuoto
se pure a questo asportano lo scroto

e insieme alle cicale un bel mattino
troviam verdura fresca nel cestino.

Per sopravviver non ci basta l’aria,
però, se coltiviam verdura varia

nell’orticel di questa casa mia
forse non si morrà di carestia.

Sappiamo tutti che dall’Alpi al tacco
l’Italia altro non è che un gran bivacco.

Scendo dal treno e nel ristorante
bevo il mio malvasia tonificante.


25 luglio 1943

Urlava dal balcone Menefrego:
“Sappiate che mi spezzo, non mi piego!”

Qualcuno mormorò con ironia:
“Va a farti l’osteodensitometria”.

Non credo che a quei tempi s’indagasse
se un osso d’uomo decalcificasse,

ma il Duce, non potendo prevedere,
il “calcio” prese sì, ma sul sedere


Il raglio

Quando il politico, impettito e serio
pon soddisfatto sul potere il culo,
non riuscirai a smuovere quel mulo
neppure scatenando un putiferio.

Si dice non si possa governare
un popolo se troppo acculturato
perché ribelle quando vien scafato
e non si lasci più turlupinare.

Sarà anche vero, ma la pora gente,
quando ci ha fame e storce le budella,
colta o non colta, tende la scodella

e non convien riempirgliela col niente.
È una question legata alla natura,
lo garantisce un ciuco di cultura.


L’immunità parlamentare

Chiese ad un picchio dal puntuto becco
un tronco d’un bel salice piangente
di togliergli quel bruco impertinente
che gli rodea la vita e tosto secco
l’avria lasciato con i rami spogli
ciondolar triste senza più germogli.

Batteva il picchio, buon samaritano,
cercando il bruco sotto la corteccia
dove s’annida torbida la feccia
che imbratta tutto, specie il cuore umano.
Batteva il picchio ‘ché volea scovare
laddove s’annidasse il malaffare.

Ma il verme che tarlato aveva il tronco,
sicuro di non esser catturato,
dentro il suo guscio quasi corazzato
stette aspettando in fondo allo spelonco.
Sapea che prima o poi anche il cercare
del rompiballe doveva cessare.


L’ossimoro

Udite il sogno che m’ha conturbato,
un incubo davvero freudiano:
credevo di trovarmi nel pantano
frammezzo ai palazzoni dello Stato.

Al deretan d’un ciuco spelacchiato
seguia uno sgangherato carrozzone;
attorno: un’infernale confusione
di bestie come in piazza del mercato.

Il carretton parevami adornato
col nostro tanto amatoTricolore.
Solo a pensarci mi si strazia il cuore
pe’l sangue che ad issarlo ci è costato.

Sopra il rozzo veicolo gitano
v’era un’insegna, ora che rammento,
posta a cassetta. Lessi: Parlamento,
dove il cocchiere pone il deretano.

Non per dispregio, credo distrazione,
posata lì solo per un momento
forse in attesa di collocamento
là dove si governa la Nazione.

“Tutti in carrozza! – grida il postiglione-
Il popolo dell’urne v’ha votato
ora, per espletare quel mandato
dovrete alfine prender posizione.

Trote, stambecchi, volpi, capinere,
cani arrabbiati, topi roditori,
pecore, caimani e alligatori,
mostratevi all’altezza del mestiere.
Dal canto mio vi lascio e me ne vado,
mollo le briglie ad altro carrettiere,
per un settennio ho fatto il mio dovere,
vado in pensione e credo di buon grado”.

L’annuncio ufficialmente proclamato
mise in subbuglio il caravan serraglio;
tutte le bestie si misero al vaglio
e ognun voleva esser nominato.

Sembra curioso, ma di governare
tutti pretendon, specie chi è insipiente
che sia bovaro oppure delinquente
che cosa importa? Si può sorvolare.

Fra veti, controveti e sgomitate
si scatenò una rissa inconcludente
e lo Stivale risultò perdente.
Scimmie direi da prendere a nerbate!

Temo che fra le bestie del creato
prenda un leone alfine il sopravvento,
ributti a mare tutto il Parlamento
d’un popolo confuso e fuorviato

da sterile filippica fanatica,
che tratta l’elettore come un cane
assecondando le scemenze umane,
per una dittatura democratica.

Svegliatomi dall’incubo in questione
prodotto ahimé da un cibo un po’ indigesto,
confesso in fondo che fu il mio pretesto
d’ironizzare intorno a un’opinione.


LAGO DI MONATE

Viviane del lago, per molti morgane,
per altri virago. Che favole strane!

I vecchi raccontan patetiche fole
di fate che salvano o annegan la prole,

ma sono racconti che hanno il sapore
d’oscuri tramonti, del vino l’odore:

Parole che nascon da pessimo umore
o forse nascondon l’oscuro dolore

di perdite ingiuste, di alghe insidiose,
di piaghe vetuste o d’alme accidiose

e mentre aspetti dai tempi perduti
sorgere mondi a te sconosciuti,
il cielo di sera, placido e arcano,

regala misteri e un sorriso profano.

I° Premio al 13° Concorso Internazionale di Poesia ANTEAS 2011


IL PRATO SABBATICO

Ero tornato al paese. Fatto il giro delle vecchie strade e dei vicoli remoti per vedere se tutto fosse veramente cambiato o se qualche vestigio della mia infanzialontana fosse rimasto a ricordo d’antiche radici, mi fermai stanco lungo il “Sempione”, nei pressi della stazione ferroviaria in abbandono.
La ferrovia continuava a funzionare a pieno regime a dieci metri dall’abitazione della mia giovinezza, ove ora risiede mia sorella, ma la stazioncina s’era lasciata sopraffare dalla tecnologia: aveva chiuso i battenti, perso qualche imposta, un calcinaccio qua e là e attendeva che gli anni demolissero il resto: La mano dell’uomo non serve, ci penserà il tempo, pensai. Le voltai le spalle un po’ schifato, “Chissà perchè quest’essere che ha connaturato in sé il senso del bello ami distruggere con tanta fanatica passione!
Veramente fanatismo e passione ce la metteva a non far proprio fatica)”. La mente vagava mentre l’occhio s’era soffermato ad ammirare un prato incolto che avevo di fronte.
Me ne stavo seduto oziando su di un paracarro della statale all’uscita del vecchio sottopassaggio ferroviario pedonale. Ammiravo la vegetazione selvatica del prato abbandonato, chiuso fra la strada, la scalinata che conduceva al sagrato dell’Assunta, il muro di sostegno della Motta su cui troneggiava la chiesa e la recinzione che lo separava da una casa posta tra di esso e il sentiero che conduceva alla “Vigna drée”. “Che ci fa un prato sabbatico soffocato tra asfalto e cemento?” Avevo dimenticato che quello era il sedime dell’antico cimitero, sul quale nulla poteva essere costruito prima che non fossero trascorsi cento anni dall’ultima esumazione e dalla sua chiusura definitiva.
Era rimasto lì, come un sacrario vuoto, a testimonianza delle anime sfrattate; incolto e meraviglioso col suo universo di vegetali inselvatichiti fra i quali spiccava qualche papavero sbiadito dalla fame e qualche timido fiordaliso. Su di esso il tempo s’era fermato, anzi, aveva fermato la mano sacrilega dell’uomo prima che potesse costruirvi un oratorio e un parco giochi per bambini. Intenzioni lodevoli, senza dubbio, ma fatte di altro cemento ac- canto a del cemento. Il progetto era già pronto e in attesa d’essere realizzato. “Speriamo che le amministrazioni si avvicendino tra avversari politici prima che qualcuno possa scavarci le fondamenta, così i progetti verranno continuamente modificati, ripresi e abbandonati e questo bel prato continui a sopravvivere – pensai – altrimenti potrebbe arricchire l’italico primato delle opere incompiute, visto l’andazzo dei politicanti, che, invece di portare a termine, sono sempre pronti a disfare quel che gli avversari precedenti hanno fatto o tentato di fare. Il gioco è facile: basta dedicarsi ai piani di sviluppo pluridecennale dimenticando le piccole urgenze realizzabili. Servono ad iniziare lavori che non potranno essere terminati, a dar fondo ai quattrini messi a disposizione e a mettere gli avversari nell’impossibilità di fare qualcosa per portare le opere a compimento, oltre che ad attribuire loro la responsabilità ed accusarli d’inettitudine. Così il far politica diventa un mestiere redditizio visto che nessuno vi rinucia, ma che dico rinuncia, anzi, l’alimenta creando le premesse per le elezioni successive, onde potersi votare un nuovo aumento di stipendio. Così tra una discussione e l’altra sul sesso degli angeli e su chi abbia lo yacht più grande ed elegante, passano i consigli comunali e ci pensa il tempo a demolire li brutture edilizie”. Là dove la mano dell’uomo non s’allungava, vedevo che il Creato tornava ad essere il giardino dell’Eden che il Padre Eterno eveva concepito: un prato incolto, una vegetazione spontanea, un fazzoletto di terra con milioni di vite diverse; vegetali e animale coabitanti in pace ed armonia. L’orologio del campanile sopra la mia testa batteva le dodici, un tantino in ritardo per colpa del vecchio marchingegno meccanico a pesi e contrappesi. Erano rintocchi familiari come una volta, quando, infilati rapidamente gli zoccoletti, correvo di corsa a casa a vuotare in fretta e furia la scodella di zuppa di verze e pane rammollito per poter tornare senza indugi a scorazzare selvatico nei boschi inseguendo le mie fantasie.D’allora molte altre stagioni son passate e son tornato. Le amministrazioni si son succedute ma, beffandosi della mia ingenuità, si sono alternate nei simboli, non nelle persone che son migrate da un’etichetta all’altra conservando immutati i contenuti e l’agire. Il mio campo sabbatico, stanco di opporsi e di resistere alla perfidia umana, rassegnatosi, ha ceduto il posto ad un campo di calcio. Fatiscenti sottopassaggi stradali hanno nel frattempo deturpato il resto del paesaggio e sconvolto l’urbanistica secondo irrazionali criteri di pseuto modernità e funzionalità.
Credevo di ritrovare le mie radici e mi son sentito alieno in quella che un tempo era la terra che m’ha nutrito la mente. Torno triste ed imbronciato da mia sorella. Mi fermo ad osservare la casa che, ancora ragazzo, aiutai a costruire materialmente con le mie mani: l’ultimo scrigno dei miei ricordi; anche se non più comel’incompiuta di Beethoven, ha resistito bene all’insolenza del tempo e degli uomini.



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