Opere di

Carla Cucchiarelli

Con questo racconto si è classificata al quinto posto al Concorso Città di Melegnano 2008 sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria: «Dieguito è un bimbo che vive in un orfanotrofio in Sudamerica, e ama con candore il luogo in cui vive, perché è la casa candida che lo protegge e lo cura. Non vuole essere adottato: per questo non sorride mai, non desidera essere bello per nessuno, per non essere adottato. Uscirà dal suo piccolo mondo trovando due genitori che lo amano proprio per la sua dolce tristezza». Alessandra Crabbia


Un sorriso a cerbottana

I suoi occhi erano grandi come la sua 
 paura e la sua pelle solo un po’ più 
 scura di quella dei vicini. Il bimbo sbadigliava e guardava la terra che vista dall’alto sembra un gioco colorato ma contemplata dal basso, mentre ci cammini in mezzo, si trasforma in una foresta spaventosa. La testa girava e poi girava che sembrava una bottiglia persa in mezzo ad un fiume e le orecchie fischiavano come quando andava nel bosco ed ascoltava la voce del vento, ma lui sapeva controllarsi e rimaneva fermo, seduto in silenzio a ricordare. Non sapeva nemmeno bene cosa. Gli veniva in mente solo quel giorno davanti all’obiettivo. Lo avevano lavato e lustrato, accanendosi sui suoi capelli tirati e sistemati con un pettine che sapeva di duro. Bisognava fosse bello ed in ordine per la foto. Una foto per cercare una mamma, una foto che sarebbe andata in giro per il mondo, su per le Ande, giù per le cascate del Niagara, su per l’Himalaya, giù per il Tamigi, fino a sorvolare la torre Eiffel e la cupola di San Pietro. Avrebbe portato il suo piccolo cuore e quei pantaloni troppo grandi, già erano passati su altre gambe, a raccontare tutta la sua vita di bambino abbandonato ad una famiglia in cerca dello stesso amore.
«Sonrìes niño, sorridi niño». E lui lì, in posa. Tanti anni quante le dita di una mano, una mamma vera che ormai era un ricordo sbiadito. Di che colore aveva gli occhi quando lo aveva staccato dal seno e di che colore aveva i capelli quando se ne era andata lasciandolo davanti ad una chiesa, con lo zainetto a terra? Il bambino non ricordava ma aveva capito bene. Lei non lo voleva. Bocca serrata, solo lo sguardo fisso nel vuoto che sapeva già d’addio e la sua gonna, colorata e triste, a sfiorare il marciapiede polveroso lasciandosi dietro più paura che parole. E lui che guardava quella sagoma andar via immobile. Aveva capito bene. Non sarebbe servito correrle dietro ed implorare. Lei aveva già deciso. «Sorridi niño», ne avrai un’altra di mamma premurosa ad asciugarti i capelli quando si fa tardi e l’odore di minestra entra nell’aria prepotente come una carezza inaspettata. Ci devi solo credere. «Sorridi niño».
Da quella foto dipendeva il suo futuro, una casa, una famiglia, una mamma, giochi, coccole, quaderni, libri e cibo da mangiare tutte le sere. E lui lì che si sforzava di sorridere all’obiettivo, invece era successo l’incredibile. Le labbra si erano rifiutate di fare qualsiasi cosa, erano rimaste immobili. Sembravano stregate, pietrificate, incapaci di aprirsi, di distendersi, di lasciarsi andare. Una foto, solo una foto, da quella dipendeva il suo futuro, a lui però non potevano farla. Continuavano a strattonarlo, a ripetergli di sorridere, di sforzarsi. «Sorridi niño, sorridi. Basta un attimo, non ci far perdere tempo».
Gli altri bimbi li aveva visti, si erano messi in posa pazienti ed avevano disteso le labbra e mostrato i loro dentini da latte incoscienti, promettendo amore e meraviglia, lui no, quel gesto proprio non riusciva a trovarlo. Per quanto si sforzasse.
«Nessuno ti vorrà mai niño se non farai vedere quanto sei bello, quanto sarai buono, il tuo carino» ripeteva Suor Adele che era paziente come un treno in partenza quando le porte si sono già chiuse ed il controllore fischia il via libera. Il niño si sentiva stupido.
Glielo avevano detto che non era dotato o meglio lo aveva sentito dire, per caso, da dietro una porta aperta. «Ha un’intelligenza al di sotto della media» così aveva sentenziato Maria Josè, l’assistente sociale, dopo che lo aveva costretto per ore ed ore a disegnare alberi e completare figure assurde, quadrati e triangoli dai mille colori che non riuscivano a fondersi. Se il bambino avesse saputo dove era la chiave, come si mischiano gli oggetti e le forme, avrebbe fatto del suo meglio, ma solo lo sforzo di tenere la matita in mano per lui era stato imponente, quasi come quello di sollevare lo zainetto da terra davanti a quella chiesa umida la sera in cui la mamma lo aveva lasciato. Al suo primo lamento era arrivato il parroco, Padre Martino che aveva una veste lunga e scura come la morte e mani dolce e rapide. Gli aveva dato una caramella al sapore di cioccolata e poi se l’era portato dietro nell’orfanotrofio. Il niño lo aveva seguito come un cagnolino appena nato segue il nuovo padrone, ma non sapeva nemmeno scodinzolare mentre il sacerdote continuava ad alzare gli occhi al cielo, parlando da solo. Borbottava qualcosa che suonava incomprensibile sulle donne e le famiglie, sui soldi che non c’erano, sui miracoli che non poteva fare. Dentro la casa, dipinta di bianco che sembrava un ospedale, tutto odorava di pulito, c’erano vestiti, giocattoli e profumo di minestra. Nessuna mamma, però, solo suore e poi tanti bambini della sua età e del suo colore. Il niño capì subito che non sarebbero stati amici ma solo concorrenti, rivali in quella gara spietata per avere una famiglia. Per farci che poi? Altre giornate, altre parole, altri schiaffi, alla fine un altro rifiuto bruciante, una mamma che ti butta via come un sacco di spazzatura da lasciare davanti al cassonetto. No, non voleva una nuova famiglia il niño, meglio quel posto fatto di sorrisi e tutti intorno a cercare di capirti, entrarti dentro, bucarti la testa e l’anima per scoprire il buono che c’è in te da vendere al miglior offerente.
«Intelligenza al di sotto della media», quindi poca, quindi niente. Sono uno stupido si ripeteva ora il bambino che aveva capito benissimo la frase dell’assistente sociale e così ora si sentiva, solo un povero piccolo senza cervello. La foto che alla fine gli avevano fatto, con prepotenza e rabbia, coglieva quel suo tirarsi indietro, quel ritrarsi spaventato davanti all’obiettivo che voleva rubargli l’anima. Le mani nascoste in tasca, il piccolo corpo che si scherniva, l’accenno di sorriso angosciato. L’aveva guardata la sua foto, quella di un bambino con l’intelligenza al di sotto della media che non sapeva sorridere ed aveva pianto. Piccole lacrime prepotenti che non avrebbe saputo spiegare. Poi erano arrivati quei due, «la tua nuova mamma e il tuo nuovo papà». Di loro gli avevano mostrato prima una foto. Gli avevano chiesto se voleva provare a viverci insieme. Lui aveva detto solo «sì» con la voce incerta ma non riusciva a spiegarsi perché di tanti fosse proprio lui il prescelto, il niño con l’intelligenza al di sotto della media, quello con la foto più brutta. Se lo chiedeva la notte, girandosi nel letto e respirando a fatica e contava i giorni per vederli in faccia davvero, occhi negli occhi. Lo avrebbe capito solo allora cosa cercavano da lui.
Sapevano sorridere la sua nuova mamma ed il suo nuovo papà, si vedeva dagli occhi che erano quattro ed erano come grandi stelle felici a tutte le ore e sapevano abbracciare. Lo avevano stretto al petto come se fosse qualcosa di prezioso e lui era rimasto rigido. Mani che gli toccavano le guance e scivolavano sui capelli, mani che prendevano le sue e lui non era preparato ed il sangue gli si fermava dentro ed anche le parole non uscivano più.
Loro, i genitori, gli avevano regalato una palla di plastica bianca, pantaloni nuovi nati solo per lui e scarpe morbide come non sapeva esistessero. E lo chiamavano per nome, ora. “Diego, Dieguito” e non era più il niño. Era diventato un bambino importante, uno di quelli davanti a cui tutti si inchinano e fanno i complimenti. Ora sedeva addirittura su un aereo accanto a loro e li guardava di nascosto per scoprire il trucco – doveva essere da qualche parte anche se non lo trovava – ma l’unica cosa che veniva fuori era che avevano la pelle un po’ più chiara e parlavano, parlavano, parlavano e lui non li capiva. La mamma era vestita bene ma in modo completamente diverso da quello della donna che lo aveva abbandonato, non gonne lunghe né scialli colorati ad avvolgerle il seno. La sconosciuta, che lo strappava al suo mondo, portava i pantaloni come un maschio e scarpe di quelle che un bambino userebbe per giocare a pallone. Persine i capelli erano da maschio, biondi e corti. Però si vedeva che era una donna ed aveva le unghie colorate e un profumo intenso che riempiva l’aria. Bella e morbida, si diceva il niño soddisfatto e pensava che era stato fortunato, per una volta. Anche l’uomo, il suo nuovo papà, sembrava appartenere ad una specie davvero rara. Indossava una maglietta colorata e rideva sempre come se avesse vinto una lotteria. Dieguito ripensava a suo padre, quello vero, con il colorito scuro ed i capelli dritti sulla testa quando se ne era andato dopo aver picchiato la mamma, e gli venivano i brividi e si metteva le mani sulle orecchie per non ritrovare le urla. Ma anche questo era un dolore sbiadito. Lui non lo aveva neanche guardato nel momento dell’addio. Era uscito punto e basta dalla sua vita. Forse non c’era mai neanche entrato.
Ed ora il niño andava a Roma che chissà dov’era, così lontana dal cuore, dal suo Perù, dalle lacrime, da suor Adele e da tutti quelli che pensavano a lui solo come ad un bambino stupido. Ma non era più solo, aveva davanti a sé un vassoio con dei dolcetti.
E confortato dal sorriso di una sonorità bionda come il sole, con un vestito tutto azzurro e una spilla a forma di aereo sulla spalla, provò improvvisamente ad allungare le labbra.
Le tirava come fossero state l’elastico di una cerbottana e loro improvvisamente risposero e si fecero docili e morbide e si aprirono come se non avessero mai aspettato altro. Lo stupore lo lasciò senza fiato. C’era riuscito. Aveva vinto la strega. Tutte quelle pose, quelle frasi, quelle ore passate a sforzarsi davanti ad un obiettivo sembravano lontane così come i ricordi e la paura e il buio della notte nella foresta. Non sono più uno stupido si disse Dieguito sollevato e per tutto il viaggio rimase così, con quel sorriso immobile sul viso, per paura che se ne andasse via di nuovo.


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