Sfere - Breve racconto sulla resilienza

di

Bruno Scarpino


Bruno Scarpino - Sfere - Breve racconto sulla resilienza
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
12x17 - pp. 72 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-9948

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In copertina: «Vintage feather quill pen illustration» © Christos Georghiou – stock.adobe.com


Prefazione

Bruno Scarpino propone un breve racconto, decisamente interessante ed ammaliante, costantemente pervaso di un alone misterioso, enigmatico e, al contempo, simbolica rappresentazione della concezione dell’amore, indagato nel suo significato più profondo.
L’amore è l’unica sostanza invisibile che rende veramente “liberi”, non a caso, l’autore fa dire al protagonista della sua storia che “l’amore è l’incontro di due libertà”: amara considerazione che segna anche l’epilogo del racconto.
Nel processo narrativo Bruno Scarpino offre numerosi spunti di riflessione, sempre ponendo, al centro della sua visione, la concezione della vita stessa, intesa come una miscela alchemica composta di amore e odio, gioia e dolore, malinconia ed estasi, nella quale sono distillate le molteplici contraddizioni dell’esistenza umana, che vengono depurate e salvate dal suo atto liberatorio, dalla sua “arte dell’incantamento”.
“La vita si ripete”, a distanza di tempo, in luoghi lontani e sconosciuti, ma si ripete inesorabilmente, “ciò che cambia è il modo in cui la viviamo”: ecco allora che entriamo nel vivo della sua intenzione narrativa, quando il protagonista Victor afferma che “la vita altrui scende leggera dalle sue dita e, mentre sfila tra le sue mani, una sensazione di libertà lo assale”, perché percepisce che uccidere un essere umano può “liberare la tristezza che lo attanaglia”, liberarlo dalla tristezza di cui si circonda.
Emerge chiaramente che non si tratta di un raptus, ma di un’azione dettata da una convinzione profonda che è alla base di tale decisione, un gesto lucido e definito: “liberare” un corpo dalla sua malignità.
Il palcoscenico della narrazione è un paese tranquillo, dove la vita è scandita dai rintocchi del campanile della chiesa, e Victor rimane affascinato da quel luogo, decidendo di cercare un locale da utilizzare come bottega per creare le sue sfere magiche: un “piccolo buco buio con la porta verde” diventa il suo laboratorio, e l’insegna non lascia spazio a dubbi: “Artigiano Victor, monili e sfere contro l’irrequietezza”.
Il talento di Victor è proprio questo: “riuscire a trasformare le paure delle persone in coraggio, la rabbia in tranquillità, l’angoscia in gioia”: un’arte che aveva imparato molti anni prima quando aveva vissuto nel deserto, tra i Tuareg, incontrando Amastan, che lo aveva introdotto all’arte dell’incantamento, e lui era rimasto affascinato, fino a decidere di affinare quel potere, per generare oggetti che, dal nulla, “potessero attrarre l’essenza delle persone scomparse”, e creò delle sfere di vetro, riuscì ad “incantarle”, a trasportare le paure dell’essere umano dentro le sfere.
Victor aveva la capacità di capire quando le persone erano tristi e, nel tranquillo paese dove si trova ora, inizia a creare le sfere dalle “virtù speciali” per le persone che frequentano la sua bottega: tra costoro v’è Amanda, e lui è subito affascinato dalla donna, sente la sua “leggerezza” davanti alla vita, si innamora e nasce una passione ardente, che si inabisserà in un epilogo sorprendente.
L’arte di Victor è una sorta di atto liberatorio che rende “leggeri” i corpi delle persone, incantandoli nei suoi oggetti, “salvandoli” dal dolore e dall’odio, dalle paure e dalle debolezze, offrendo un sollievo a coloro che stanno “abbandonando una vita che ormai non gli appartiene più”, e che è diventata solo disperazione: ecco l’atto di resilienza che può donare Victor, “trasformare ciò che di negativo le persone trasmettono in qualcosa di positivo per coloro che hanno ancora bisogno di vita da vivere”.
La consapevolezza che emerge nella parte finale della narrazione diventa una sorta di amara considerazione sulla vita di Victor perché aveva imparato a “liberare” gli altri, ma non era riuscito a liberare se stesso “dalle sue ossessioni” e continuava a “farsi deludere”: si era trovato indifeso e impotente davanti all’amore in un “tempo sbagliato”, dissolto nella materialità della vita, svanito nonostante il potere delle sue sfere magiche.

Massimo Barile


Sfere - Breve racconto sulla resilienza


A Sofia,
e a quei mille modi in cui.


Prologo

Occhi.
Gli occhi iniettati di sangue, la fronte lucida di sudore, le pupille dilatate e la bocca spalancata.
Orrore negli occhi, non riesce a capire cosa ha appena commesso. Ma la vita altrui scende leggera dalle sue dita, e mentre sfila tra le mani, una sensazione di libertà lo assale. Uccidere un individuo per liberare la tristezza che lo attanaglia. Uccidere un individuo per liberare la tristezza di cui si circonda. Uccidere per liberarsi.

Occhi.
Gli occhi iniettati di sangue e sudore, la pelle madida e il respiro affannoso, ancora la rabbia nelle mani mentre l’ultimo respiro è già andato via.
Lo chiamerebbero raptus, ma non c’è mai stato nulla di più lucido e lineare dietro quella decisione. Il suo intento era chiaro, liberare quel corpo e quella vita dalla sua stessa malignità.


1

Victor salì sul crinale e vide la strada maestra incunearsi tra due colline. La seguì con lo sguardo e provò a memorizzare il percorso.
Poi scese nell’avvallamento e seguì la via, piano piano la radura e le coltivazioni di pomodori lasciarono il campo alle case e alle costruzioni cittadine. Inforcò la strada asfaltata e salì su per il paese.
Un’unica via lo percorreva per intero, ai lati della strada le case, alcune ristrutturate ma la maggior parte abbandonate e semi-distrutte.
Nella piazza principale notò subito la locanda e il negozio di frutta e ortaggi. Non aveva fame ma decise lo stesso di fermarsi a comprare alcune mele.
Lì conobbe Margheret, la pelle liscia e le occhiaie profonde.

«Buongiorno.»
Lei rispose tirando su gli occhi: «Vorrei delle mele, sa è stato un lungo viaggio.»
Lei sorrise senza neanche guardarlo.
«Prego si serva pure, abbiamo delle splendide mele provenienti dalla montagna, leggermente aspre ma molto succulente.»

Victor era soprattutto interessato alla possibilità di conoscere qualcuno al fine di poter prendere un piccolo locale da usare come bottega per le sue creazioni. Non perse comunque l’occasione per scambiare due chiacchiere con Margheret e proporle i suoi piani.

«Se cerca un piccolo laboratorio senza fronzoli, le consiglio di rivolgersi al nostro capomastro. Lo trova sicuramente indaffarato in inutili discussioni, sulla scalinata della villa del paese, poco più su seguendo la strada.»

Victor comprò alcune mele e delle belle melanzane e si incamminò su per il viale.

Man mano che risaliva la via principale, si incontravano i primi bar e negozietti di cianfrusaglie, poi un parco, il municipio, dopo una curva la villa comunale e infine al punto più alto, la chiesa col suo campanile, che ogni quindici minuti suonava, ricordando a tutti chi fosse lì a gestire il tempo.

Victor restò affascinato dalla tranquillità che regnava nell’aria, tra i vicoli pochi gatti e qualche vecchio, giovani non ve ne erano, almeno a quell’orario.

Camminando in salita però, notò un vociare sempre più definito avvicinandosi verso la villa.
Là stava, in completo abito blu, il sindaco della piccola comunità, intento a decantare le sue azioni politiche e non, riempiva tracotante con vociare rumoroso tutti i portici della piccola piazza.

Victor attese una pausa nello sproloquio per avvicinarsi e immediatamente fu assalito dagli sguardi inquisitori che solo le persone anziane dei piccoli paesi sono in grado di sfoggiare.

«Buongiorno – principiò, – mi chiamo Victor e sto cercando una bottega dove potermi stabilire e lavorare.»

La richiesta non passò ovviamente inosservata. Tutti i presenti avevano almeno una bottega, uno scantinato, persino un cantina da offrire a quel viandante senza passato che gli si era materializzato di fronte.
Mentre camminava cercando di scampare alle mille proposte ricevute vide una piccola porta verde, le cerniere erano arrugginite e dalle fessure nel legno si poteva guardare dentro. Un “piccolo buco buio” penso subito Victor.
Chiese del proprietario del “piccolo buco buio”, ad una signora coi capelli raccolti e le sopracciglia ispide, affacciata da un balconcino pericolante.

«Non c’è.»
«E dov’è?»
«È in città, vive lì.»
«E se volessi prendere in affitto questo locale con chi dovrei parlare?»
«Col figlio.»
«E dov’è?»
«Oltre le montagne.»
«Mmh… Vorrei affittare.»
«Chieda al bar.»

Tornò al bar, chiese un caffè e si rese conto di non aver letto il nome del paese entrando dalla via principale. Si fece avanti col barista:
«Scusi ma come si chiama questo paese?»
«Sant’Elia» rispose il barista, serio.
«Un posto tranquillo. E lei come si chiama?»
«Elia, acqua dal rubinetto va bene?»
«Sì, grazie.»
«Vorrei affittare quel piccolo buco buio con la porta verde e le cerniere arrugginite.»

Il barista posò la tazzina sul bancone e guardando Victor con sospetto sentenziò: «Sono 500 scudi alla settimana.»
«Bene, a chi devo darli?»
«A me, ogni quattro del mese. Può pagare ogni quattro del mese.»

Si strinsero la mano.

I vecchi al tavolo giocavano a carte e bestemmiavano il caldo.
Victor aveva ben chiaro cosa fosse il vero caldo, quello del deserto che secca la bocca e la pelle e non permette neanche di perdere tempo ad imprecare se si vuole sopravvivere.
Passeggiò ancora per le viuzze cercando forse un’ispirazione, o un motivo per andare via.
Quel posto lo affascinava. Lo affascinava come si resta affascinati dai racconti dei nonni. E tutti i nonni hanno storie simili. Tutte quelle storie sono uguali, ma sentirle raccontate da persone che ne hanno un ricordo quasi romantico induce in noi una sensazione di novità.
Come a dire che la vita alla fine si ripete, a distanza di anni magari, in mondi lontani ma si ripete, uguale sempre, ciò che cambia è il modo in cui la viviamo.

L’entrata si trova all’incirca dieci metri dall’angolo con una via minore, al fine di poter lasciare le persone libere di introdursi nella bottega di Victor senza destare eccessiva attenzione.

Victor si stabilì lì, e ricavò una piccolo retro-bottega dove poter riposare nei momenti morti.
Pulì riordinò, e cambiò anche la porta e l’insegna al fine di risultare meno austero.
Intagliò personalmente una tavola di faggio sulla quale scrisse “Artigiano Victor, monili e sfere contro l’irrequietezza”.

Questo era il suo lavoro, a dire il vero il suo talento, riusciva a trasformare le paure delle persone in coraggio, la rabbia in tranquillità, l’angoscia in gioia. Victor era un artigiano, ed aveva imparato la sua arte nel deserto tra i Tuareg, molti anni prima.

[continua]


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