Ai miei… primi 90 anni

di

Bruno Longanesi


Bruno Longanesi - Ai miei… primi 90 anni

15x21 - pp. 550 - Euro 19,00
ISBN 978-88-6587-9658

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


Prefazione

Bruno Longanesi è scrittore poliedrico, accattivante e coinvolgente, costantemente proteso a “raccontare” le molteplici manifestazioni e le antinomie della vita, capace di slanci vitali nell’universo emozionale che lo contraddistingue e, allo stesso tempo, rivolto a scandagliare le zone più celate dell’animo umano.
La sua Parola è sempre intensa e vibrante, sovente colpisce al cuore, a volte si fa addirittura struggente, eppure, nel fluire dei racconti che compongono questa corposa raccolta, la sua sobrietà narrativa risulta dominante: lineare e ammantata da una levità che rende facile la lettura.
Il racconto che apre il libro, dal titolo “Don Romeo”, rappresenta il simbolo narrativo che è fedele espressione delle intenzioni di Bruno Longanesi, perennemente in equilibrio tra realtà e invenzione letteraria, tra sguardo attento al quotidiano vivere con le sue sofferenze e visione ammantata da un velo d’ironia, capace di regalare un sorriso, fino a sfociare in una rappresentazione tragicomica del mondo con la figura d’un parroco d’un piccolo paese sperduto tra le montagne che, a causa dell’età avanzata, crede d’esser diventato vescovo e s’atteggia ormai a “monsignore”: la divertente vicenda, che risulta esilarante in alcune rappresentazioni, si chiude con il forzato prelevamento del parroco che non intacca la convinzione dei suoi compaesani, sicuri che presto diventerà Papa.
Nel susseguirsi dei racconti che riconducono ad una visione ironica delle umane vicende troviamo anche l’incredibile storia della famosa “barca di Marino”, ancorata al terzo piano d’un palazzo, diventata ormai un ristorante rinomato, grazie alla “visionaria follia” del romagnolo Marino: la tempesta che ha scaraventato la “barca miracolosa” vicino alla sua casa assume un significato allegorico e tutto pare dominato dal destino.
Bruno Longanesi offre poi alcuni racconti che fanno riferimento all’amicizia tradita, come nel caso del povero Antonio che, dopo aver fatto tredici al totocalcio, si rende conto che l’amico Arrigo è fuggito in Florida con i soldi della vincita; il presuntuoso Leopoldo che rimane beffato dalla sua arroganza e il buon Emilio che risolve il problema della vendetta “a modo suo”.
Alcuni racconti sono dedicati alla montagna, passione giovanile di Bruno Longanesi, con numerosi ricordi e storie di “scalatori”; rimembranze legate ai mutamenti subiti dall’ambiente montano e vari riferimenti al “rito” che lo vedeva ritornare, nel periodo estivo, alle sue amate montagne.
Il recupero memoriale di Bruno Longanesi conduce, in un secondo tempo, ad una serie di “racconti di guerra” che mettono in evidenza le contraddizioni e le vicende sconosciute del periodo sofferto e tragico legato alla Seconda Guerra Mondiale: la storia del fratello Marcello, ingiustamente dichiarato disertore, e del fratello Arturo, disperso in guerra, assurgono a simbolo della follia e dell’inutilità della guerra e, anche se la verità sarà orgogliosamente conquistata, rimarrà solo il dolore.
Nel processo narrativo emergono anche riflessioni sulla vecchiaia e l’inesorabile fluire del tempo seppur domina, come scrive Bruno Longanesi, il desiderio di “essere un giovane novantenne”, che ricorda gli amati gatti della dinastia dei Pacialì, che hanno allietato la sua giovinezza e, allo stesso modo, d’aver preso parte alla “Battaglia del Senio”, durante la Seconda Guerra Mondiale: il filo nascosto che unisce le stagioni della vita viene direzionato dal destino che segna la vita dell’Uomo con il suo simbolico orologio che scandisce il tempo del “piano prestabilito”.

Nonostante il fatto che il libro comprenda numerosi racconti relativi a tematiche assai differenti, si avverte la costante volontà di offrire un corpus narrativo che riesca a coinvolgere il lettore, grazie ad una scrittura lineare e sincera, genuina e scevra da inutili orpelli, decisamente propensa a disvelare il lato nascosto delle “occasioni della vita”, sovente intenta a “scrutare il mondo” con sguardo ironico e talvolta satirico, fino a condurre ad una dimensione più alta, dove dominano profonde riflessioni e la consapevolezza esistenziale della condizione dell’Uomo.
Bruno Longanesi è scrittore effervescente, dotato d’una notevole capacità di magnetizzare l’attenzione sulle storie che desidera “raccontare”, come a volerle alimentare d’una personale energia con il suo stile, con la sua verve espressiva e con la sua innata vena ironica, capace di cogliere il lato nascosto delle cose.
Bruno Longanesi crea e ricrea le rappresentazioni e i protagonisti, ne esalta le verità ed esplora l’animo, trae linfa anche dalla narrazione delle tragiche vicende collegate alla Seconda Guerra Mondiale, in un lento dissolvimento d’ogni travaglio all’interno della sua scrittura, che desidera solo riportare alla luce ciò che è stato vissuto, sofferto, agognato e sognato.
La sua Parola risulta penetrante perché racconta con il cuore e riesce a suscitare l’animo, in un costante deflagrare di emozioni e recuperi memoriali, stati d’animo e imprevedibili manifestazioni dell’umano vivere.

Massimo Barile


Introduzione dell’Autore

Tombola!
Ho giocato a tombola (o, se preferite, a bingo!).
Una tombola immaginaria, nell’arco di una vita, in quanto ho estratto dal sacchetto della vita, tutti i numeri, dall’1 al 90.
Ora non mi resta che ricominciare una nuova giocata: iniziare una nuova schedina, seguire l’estrazione dei numeri dal contenitore naturale (esistenza), sperare nella sorte e… vincere!
Diceva Geoge Bernard Shaw: “L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare!”
Sì! Incomincio una nuova giocata perché, quando smetti di giocare non sei vecchio: sei spento!
E come puoi partecipare al gioco?
Semplice, si gioca tutti i giorni: l’importante è svegliarsi ogni mattina, e dire: “Sì, oggi sarà una grande giornata!”; nel pomeriggio poter dire: “Sì, oggi è una grande giornata!”; alla sera poter affermare: “Sì, oggi è stata una grande giornata!”
Ebbene, alla fine della giornata esistenziale potete ripensare a tutto ciò e potete dirvi: “Sì, è stata una bella estrazione e la vita vissuta è stata una grande vita!”
Vorresti ricominciare!

È stata una tombolata lunga (ma piacevole!).
È stata facile? Beh! Questo non direi.
Anche perché, spesso, le difficoltà le ho cercate di proposito.
Ma un minimo di spericolatezza, una dose di entusiasmo e una grande quantità di fortuna, mi hanno permesso, nell’attività professionale (Dirigente ENI-Responsabile del personale all’estero): di visitare, in lungo e in largo, i Cinque Continenti, di contattare alte Personalità internazionali (fra l’altro un colloquio, a quattr’occhi, di oltre un’ora, con il nostro ex Re Umberto II); nell’attività ricreativa: fare molto sport (alta montagna con numerose ascensioni oltre i 4500 metri), podismo con una vittoria ad una “Stramilano agonistica internazionale” e la partecipazione alla Maratona di New York); nell’attività pensionistica (hobby) di scrivere dieci libri; un centinaio di racconti; essere premiato in 560 Premi letterari nazionali e internazionali; vincere il Gran Prix Mediterranèe Etat Unis d’Europe e cinque Titoli Accademici internazionali di lettere.
Che carrellata di ricordi! (direi piacevoli).

Secondo me la memoria di ogni uomo è la sua biblioteca privata!
Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé, come pagine di un libro.
Andare a ricercare libri, fra gli scaffali del passato, non è sempre gradevole: le pagine belle non puoi rileggerle e quelle brutte non le puoi cancellarle.
Ma solo l’Autore può apprezzare quegli scritti, mentre gli amici e i conoscenti possono solo leggere il titolo.
E quale titolo dare a un libro così… voluminoso?
Un titolo ottimistico, anche se un po’… egocentrico… a me va bene:
“Ai miei… primi 90 anni!”?
Siete d’accordo anche voi?
E allora… zaino in spalla e ricominciamo a giocare a… tombola!
Le vie del Signore sono infinite (è la segnaletica che lascia a desiderare!).
Ho estratto il primo numero dal sacchetto della fortuna (l’edizione di questo libro), e poi spero di proseguire nell’estrazione.

Ho vinto qualcosa da questa giocata appena terminata?
Ho vinto poco, ma ho imparato una cosa: che la vita va vissuta con entusiasmo!
La vita è un susseguirsi di avvenimenti, belli e brutti, allegri e tristi, ma tutti, proprio tutti, meritevoli di essere vissuti.
Anche i brutti, perché servono a rafforzare il carattere e vincere le successive sconfitte.
Riempiono il sacco dell’esperienza.
E non credete a quelli che vi dicono: l’esperienza è un pettine che la vita dà ma dopo che hai perso i capelli, oppure è un ombrello disponibile quando ha smesso di piovere!
Bisognerebbe nascere a 80 anni (io propongo i 100!) e, man mano ringiovanire, questo sì!
Ma ciò non è possibile.
L’esperienza è una dote che ti elargisce l’esistenza (anche se non te la regala, ma devi pagarla, talvolta a caro prezzo!) e si capitalizza con il passar del tempo; e ti prepara ad accettare i fatti della vita con pacata rassegnazione.
In questo libro ho voluto raccogliere momenti della mia esistenza, tristi e allegri, ponendoli di fronte al lettore, perciò il volume è composto da molti racconti autobiografici.
Ho voluto sottolineare come nella vita bisogna accettare ogni evento come inevitabile e predisposto da un Qualcosa o un Qualcuno che sovrintende al nostro volere, ma è necessario lottare e cercare di indirizzare le cose a tuo piacere.
La vita è come un caleidoscopio, lo strumento ottico dove nell’interno si trovano alla rinfusa, oggetti colorati le cui riflessioni multiple formano immagini, (fatti della vita) che mutano spesso in modo imprevedibile e a ogni movimento.
Queste immagini vanno affrontate con le dovute contromosse, quelle chiamate libero arbitrio.
Non meravigliatevi, quindi, se trovate scritti, con la stessa disinvoltura, racconti allegri come “La carriera di don Romeo” o di estrema tragicità come “Giovinezza”; se trovate racconti nei quali è esaltato l’amore per la montagna o la rabbia per la difficoltà di affrontare i pericoli e superare la paura in guerra; se noterete qualche sentimentalismo per la Natura che ci circonda; l’amore per gli animali; le fatiche per conquistare una vittoria e il piacere di godere del riconoscimento.
Nella vita si sorride e si piange: si gode il sorriso e si soffre nel pianto, ma tutto, proprio tutto, rafforza il carattere e riaccende la speranza per il futuro.
Diceva il Mahatma Gandhi: “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare anche sotto la pioggia!”
E vedere il futuro con ottimismo.
Alla mia età? Sì, alla mia età, certamente, alla mia età (soprattutto!)

Signori… si ricomincia il gioco!

GRAZIE PER LA VOSTRA PAZIENTE LETTURA!


Ai miei… primi 90 anni


RACCONTI BRILLANTI


LA “CARRIERA” DI DON ROMEO

Per piangere usiamo 67 muscoli… per ridere solo 8.
Siamo in un periodo di crisi: facciamo, quindi, economia!
RIDIAMO!

Piangere o ridere?
Per piangere, si intende comunemente, l’atto di produrre e rilasciare lacrime in risposta ad un’emozione, sia essa negativa (dolore) o positiva (gioia).
Ridere, invece, è una reazione nervosa che, nel comportamento umano, si manifesta in diverse circostanze.
In genere si tratta di una risposta emotiva di fronte ad un’esperienza comica o sensazioni ritenute di allegria, piacere, benessere, ottimismo.
Allora, cosa vogliamo fare? Decidiamo!
Secondo il mio punto di vista, piangere non è necessario per vivere (e poi c’è sempre tempo!), mentre ridere fa bene alla salute (dicono i medici) e aiuta a vivere.
Allunga la vita di qualche anno (sarà vero?); aumenta il potere immunitario; abbassa la pressione; rallenta il battito cardiaco; riduce lo stress; previene ictus e infarti.
Caspita! E voi volete perdere una occasione simile, senza spendere soldi in medici e in farmacia? Senza nessun ticket? Gratis?
Ma non tutti sanno che ridere può anche far perdere peso.
Se ridi da dieci a quindici minuti al giorno brucerai da dieci a quaranta calorie!
Lo dicono le riviste mediche specializzate inglesi (più o meno, dicono: “come sollevare per un quarto d’ora dei pesi!” Mah!).
Secondo le ultime ricerche, il sorriso fa bene al fisico come una corsa o una partita a tennis ed è una palestra per il cervello (si diventa atleti in poltrona, con le pantofole: basta ridere!)
Addirittura riduce il dolore (ecco la diffusione e il successo della clown-terapia negli ospedali).
Voglio aggiungere che un sorriso è rilassante e combatte l’insonnia.
Capito? Quando vai a letto, invece del pigiama, indossa un bel sorriso (la taglia è unica!).
Più sorridi prima, più dormi a lungo dopo (con sogni optional piacevoli).
Però, in questa campagna “pro-sorriso”, mi appello al… passato
Credo di più a… mia nonna che mi diceva: “Il riso fa buon sangue” (e per “riso” non alludeva all’alimento!).
Diceva anche che “un’ora di sole asciuga molto bucato, come una buona risata asciuga molte lacrime”.
Io, personalmente, per iniziare la giornata prendo un caffè, poi, per continuarla, sorrido: ho una giornata intera a mia disposizione e sono di natura ottimista.
Se proprio siamo ancora indecisi se piangere o ridere, (e non crediamo nei prodigi della medicina), scegliamo sulla base della convenienza economica, sul risparmio: un sorriso costa meno della corrente elettrica, ma dà più luce (infatti il mondo sembra sempre luminoso dietro un sorriso!); un proverbio cinese asserisce che ogni sorriso ti rende più giovane di un giorno (fate la conta e sarete sorpresi della nuova età!) e, infine, il sorriso stira (gratis!) e nasconde le rughe del volto.
Le simpatiche fossette che si formano nel viso dovrebbero coprire il posto occupato dalle rughe.
Vogliamo perdere anche queste occasioni? Sono offerte incredibili, da saldi!
E poi non c’è problema linguistico perché il riso è poliglotta: ti permette di comunicare immediatamente con il prossimo di tutti i Continenti: tutti sorridono nella stessa lingua, senza bisogno di parlare e senza interpreti.
E se siete dispettosi di natura, potete sfogarvi: se vuoi rovinare una giornata a un brontolone, donagli un sorriso!
Sforzatevi! E se avete anche un solo dente, sorridete con quello! Basta per rendervi attraenti!
Voglio riportare il parere di grossi personaggi. Chopin diceva spesso: “Chi non ride… non è una persona seria” e Fèdor Dostoevskij: “Se avete in animo di conoscere un uomo, allora non dovete fare attenzione al modo in cui sta in silenzio, o parla, o piange; nemmeno se è animato da idee elevate. Nulla di tutto ciò! Guardate, piuttosto, come ride!”

Lo sapete che i bambini ridono quattrocento volte al giorno e gli adulti solo quindici?
Direte (con ragione) che gli adulti possono essere giustificati.
Sono d’accordo con voi.
Però, considerate che non siete costretti a portare tutti i mali del mondo sulle vostre spalle: perdio! Rilassatevi! Non presentate sempre quel viso arcigno!
Non si può sempre ridere di tutto o di tutti, ma qualche volta ci si può provare!
Insomma, viviamo alla maniera genuina degli abitanti di questo immaginario paesello, che ho inventato nel racconto che segue, nel presuntuoso tentativo di farvi usare gli otto muscoli necessari per strapparvi un pallido sorriso (non lo pretendo a… trentadue denti, sia chiaro!)
Insomma, non so più cosa inventare per strappare un vostro sorriso!
E fatevela una risata, no? Magari domani potreste essere una foto seria su un… marmo!
Scusatemi la brutalità, non volevo arrivare a questo!
Diciamo così: sono andato nel pesante solo per il vostro bene: per farvi riflettere su quello che può capitare nella vita, per farvi campare di più, e in… salute, con una economica risata!
E se la vita proprio non ti sorride, perdio! Sei scalognato! Prova col solletico…

Conoscete quel piccolo paese, in cima a quella montagna così isolata dal mondo (senza telefono e luce elettrica), con gli abitanti molto semplici e sprovveduti con un fondo di candore e ingenuità dovuto al fatto che sono venuti poco a contatto con altre persone, ma che hanno una grande fantasia per un innato senso di ottimismo che li porta a immaginare cose fantastiche?
Non lo conoscete?
Lo immaginavo, però è un vero peccato!
Paesi e abitanti così, dove la chiave è ancora sulla porta per immensa fiducia nel prossimo, dovrebbero essere più numerosi: salveremmo l’Umanità!

La storia che sto per raccontarvi è molto elementare e semplice.
Sono però sicuro che dopo averla letta direte che è inverosimile.
Può darsi: io stesso stento a crederlo, ma andate a chiederlo agli abitanti del paese ove si sono svolti i fatti e tutti vi daranno una conferma.
Anzi, avete dei dubbi sulla veridicità, dimostrate di essere increduli?
Vi… rideranno in faccia (loro sì hanno quella dote di ridere spesso!)
Perché don Romeo era ben voluto in paese, specie dalle donne, in quanto riusciva a farle sorridere quando diceva, scherzando (?): “Ascoltando le donne in confessionale i preti sono contenti di non sposarsi!”.
E agli uomini: “Le corna sono come le scarpe: tutti nella vita ne hanno avuto un paio!”, oppure: “Le corna sono come i denti: quando nascono fanno male, ma poi si mangia bene!”
Insomma, don Romeo era ben visto in quanto non voleva si esaltassero i suoi tanti meriti; era ammirato per la sua modesta bonomia; la sua semplicità priva di ambizioni.
Povero in canna, faceva ironia sulla sua povertà: “Nessuno è diventato povero donando” oppure: “La felicità è sempre soggetta all’invidia, la sola misericordia non è invidiata da nessuno”.
Si consolava ripetendo: “Potrebbe andar peggio!”, pur sapendo che peggio di così…
Aveva la pazienza di Giobbe, il personaggio biblico che subì numerose sofferenze, accettando il tutto con grande pazienza e rassegnazione, senza mai lamentarsi.
In paese guai a mettere in dubbio ogni suo comportamento.
Dopo poi che aveva fatto quella carriera!
In questo racconto, io vi riporto i fatti che mi sono stati riferiti da persona che ha vissuto da spettatore le vicende e, quindi, persona degna di essere creduta.
A meno che…
Relata refero.
Io vi ho riferito quanto mi è stato riportato da altri, quindi non siete obbligati a crederci.

Tutto incominciò con una papalina, quel copricapo tondo, detto anche zucchetto, portato un tempo in casa dagli uomini anziani per combattere il rigore invernale.
Era anche un capo di abbigliamento per ecclesiastici, simbolo di umiltà della creatura umana, ben rappresentata dal distacco di ogni forma di orgoglio e superbia del sacerdote.
Da un po’, don Romeo, parroco di quella comunità sperduta fra i monti, non portava più in testa quell’ornamento che, in passato, denotava la sua carica nell’ambito spirituale.
Ne era privo perché aveva dovuto rinunciare al suo abituale zucchetto logoro e impresentabile per decenni di uso quotidiano.
Don Romeo aveva sempre rimandato l’acquisto di un nuovo copricapo per mancanza del denaro necessario.
La misera prebenda, dalla quale doveva prelevare la somma, a fine mese, era sempre in passivo, per cui l’acquisto veniva sempre rimandato.
Ma se la Curia non rispondeva alle richieste del Parroco, la Provvidenza (si è sempre detto!) non ha limiti!
Ci fu una improvvisa visita pastorale del Vescovo nella “Parrocchia” di Don Romeo, e questo avvenimento procurò il possesso di una nuova papalina.
Sì… perché il Vescovo, in quel paese senza alcuna comodità, ridusse al minimo il tempo della sua visita: salutò in fretta parrocchiani e Parroco e partì di corsa!
Tanto di corsa che, nella fretta, dimenticò in canonica, lo zucchetto!
Don Romeo accolse quel paramento come un dono di Dio.
Solo che, per la sua alta carica, il colore del copricapo del Vescovo era violetto.
“Che c’entra il colore?” pensò don Romeo con senso pratico “è regolamentare, corrisponde al mio numero di testa e… tiene caldo! Colore o non colore, io lo metto!”

Don Romeo soffriva il freddo, in quella canonica sperduta fra i monti, senza riscaldamento, e aveva anche la testa pelata: due motivi validi per adottare quella calotta.
Per anni si era attenuto rigidamente al rituale tricorno, la berretta a forma approssimativamente cubica, munita di tre alette rigide e un fiocco sulla parte superiore.
Prima la rarefazione dei capelli, poi la perdita totale, imposero un copricapo più semplice, da portarsi a tutte le ore, anche nei momenti più rilassanti.
Per intonarlo alla veste e al suo grado ecclesiastico, era rigorosamente nero.
Passare dal “tricorno” allo “zucchetto” fu un po’ traumatico, per un Sacerdote di vecchio stampo.
“Ma lo porta anche il Papa lo zucchetto…” diceva scherzosamente a se stesso per giustificare la sua trasgressione non propriamente sacrilega.
“Certo che… violetto!” commentava guardandosi allo specchio.
Ma rimirandosi osservava anche che… gli stava bene.
Sì! Gli stava bene, ma (a quanto mi è stato riportato) non fu propriamente quello che convinse il Sacerdote: un altro valido motivo va preso in considerazione in questa storia, per giustificare il comportamento successivo del Prelato: gli anni.
Don Romeo non era più giovane: aveva passato abbondantemente i settanta anzi, era nelle vicinanze degli ottanta.
Età critica, per tutti!
Incominciava a dover convivere con gli acciacchi della vecchiaia.
Le gambe non reggevano più bene il corpo di notevole stazza e bisognava aiutarle nel loro compito, specie quando doveva andare a far visita ai parrocchiani abitanti nella parte alta del paese.
Un bastone da passeggio fu il rimedio ideale: comodo, leggero, quasi un compagno di viaggio in quelle camminate sempre più faticose.
Un bastone un po’ originale perché ricurvo, ma il sacerdote non aveva trovato di meglio: un ramo di albero più dritto non era riuscito a trovarlo.
A quell’età, anche i piedi incominciarono a dolere: strani dolori alle ossa che obbligarono il sacerdote a cambiare scarpe, scegliendo quelle più ampie.
Ma erano tanto ampie che diventarono un peso e camminava con fatica.
Non era molto elegante, sinceramente… glielo disse apertamente anche il Vescovo!
Ma don Romeo rispose con molta umiltà al suo Superiore: “Che vuole, Eccellenza, sono alla fine della mia carriera… ho tanti anni sul groppone e tante cipolle nei piedi!”

Ma fu un altro motivo a convincere don Romeo ad appropriarsi del copricapo del suo Vescovo: fu l’ispessimento delle pareti arteriose ad originare una svolta nel comportamento di Don Romeo?
Sì, insomma, diciamo che l’arteriosclerosi ad una certa età, arriva come la varicella ad un bambino, ma non sparisce in poche settimane!
Fu questo motivo a determinare quei suoi strani atteggiamenti?
Sì! Credo proprio sia stata quella la causa scatenante!
Da un po’ di tempo il suo comportamento non era più quello di un tempo.
Il suo modo di agire non era più di quelli che si possono umanamente definire normali.
L’arteriosclerosi incominciò a determinare il suo modo di comportarsi.
Non può essere diversamente!
Ma chi sarebbe riuscito a convincere gli abitanti del paese!
Non ci avrebbero creduto! Non ci avrebbero creduto proprio!
Don Romeo che dà i numeri?
Ma va!
E con un gesto significativo, avrebbero mandato i malcapitati a quel paese!

Una mattina, don Romeo, uscì dalla Canonica con il nuovo zucchetto (quello del suo Vescovo) color violetto, un colore insolito.
Traversò il paese con il suo solito modo di fare.
Voleva apparire disinvolto, ma non riuscì ad esserlo: sentiva il peso della trasgressione!
Qualcuno notò il colore strano del suo copricapo, ma non dette importanza alla cosa.
Non erano formalisti: ripeto, gente senza malizia!
Il farmacista, l’unico anticlericale del paese, notò che anche l’abito talare era cambiato.
Non più la striscia di bottoni neri, nella parte anteriore della veste, ma faceva bella mostra una bottoniera, anche questa, di color violetto.
Quella veste non l’aveva certo acquistata lui, don Romeo: figuriamoci con quella carestia economica che c’era in Parrocchia!
No! Era, anche questo indumento, una… eredità capitatagli a seguito dalla precipitosa fuga del suo Superiore dallo squallore che regnava in quella Chiesa.
Ma dato che il Vescovo era molto alto di statura e di conformazione snella e don Romeo era piccolo, grasso e con una rotonda pancetta, la veste lambiva il corpo del sacerdote in modo poco elegante: la veste arrivava alle caviglie, la bottoniera era sollecitata al massimo della resistenza.
Si aspettava solo che i bottoni schizzassero via, specie sull’addome che presentava un rigonfiamento a botticella.
Se qualcuno avesse pensato che don Romeo l’avesse fatta confezionare per lui, avrebbe dovuto convenire che aveva scelto un sarto che non sapeva confezionare abiti talari oppure era alle prime armi.
Il farmacista volle rimarcare pubblicamente questo cambiamento e quell’abito originale con una frase che, nel suo modo di pensare, era un chiaro disaccordo:
“Don Romeo… non siamo in carnevale!”
Questa frase fu il motivo perché i parrocchiani notando queste vistose modifiche, rimanessero un po’ stupefatti, ma non vollero fare commenti.
Ripeto, era gente fiduciosa nel suo Parroco.
Qualcuno, indulgente, arrivò, perfino, a commentare: “Beh! Lo snellisce!”
Erano parrocchiani che vivevano nel loro semplice candore al contatto con una natura incontaminata e con una mentalità che risentiva di questa genuinità.
Tutti ebbero, però, una strana reazione che rispecchiava, se non proprio una spiccata fantasia, una loro segreta speranza, una ambiziosa aspettativa.
“Mah! Che l’abbiano nominato, a nostra insaputa, Monsignore?” pensarono.
Don Romeo era sempre stato una persona a modo, amante della modestia, semplice, aveva sempre adempiuto il suo dovere sacerdotale con molto impegno, aveva profuso in continuazione preziosi consigli: non ci sarebbe stato nulla di strano in questo riconoscimento, più che meritato.
E poi, quel cambiamento in Vaticano, a seguito della morte del Papa…
La semplicità del nuovo Pontefice, le Sue straordinarie decisioni, specie con gli umili!
“Mah! Sta’ a vedere che…” dissero i più informati del paese.
Ma si fermavano al “che” lasciando trapelare ampie prospettive.

Nella predica domenicale, però, don Romeo, non fece alcun accenno a questa promozione.
“È sempre stato un uomo semplice, modesto, schivo agli onori… eh sì! Non vuol dirlo, ma…” conclusero i fedeli, in cuor loro fieri e orgogliosi.
Però non sfuggì, al loro acuto intuito, un particolare: durante la predica, sul pulpito, il sacerdote tenne costantemente la mano destra appoggiata sul palco mettendo in evidenza, in particolar modo un dito!
Sull’anulare destro faceva bella mostra un anello che tutti, proprio tutti, interpretarono come un anello episcopale!
“E già! Non ci sbagliavamo!” conclusero i fedeli.
Ma la conferma l’ebbero alla Benedizione finale.
Don Romeo, con gesto svelto, completò il suo abbigliamento con un particolare che non lasciava dubbi sulla realtà della situazione,
Si infilò, rapidamente, in testa un paramento liturgico molto significativo: la Mitra, che il popolino chiamava Mitria, e cioè quel copricapo a forma allungata e biscupide a forma pentagonale, con nastrini a tela nella parte posteriore, le infule, che scendono fino alle spalle.
“Allora… è vero!” pensarono, convinti.
Come era imponente il loro Parroco così ben paludato!
Il chierichetto non l’aveva mai visto così vestito e lo guardò con occhi spalancati e con la bocca aperta!
Un applauso fragoroso, sgorgò spontaneo dai fedeli
Sentirono l’impulso, quasi il dovere, di chiamarlo “Eccellenza”.
Anche per dimostrare che erano sì dei sempliciotti, ma non erano stupidi e che di fronte ad una così evidente forma di esteriorità… loro avevano capito, e come!
Avevano capito bene come stavano le cose, anche se lui, il buon don Romeo, non voleva… ammetterlo!
Ma la conferma indiscutibile (c’era bisogno?) l’ebbero quando don Romeo finì la celebrazione della Messa ed entrò in canonica: nel breve tragitto dalla lunga tunica spuntarono due scarpe con fibbia, non di ordinanza per un Sacerdote semplice.
Erano spariti quei vecchi scarponi sostituiti da due calzature eleganti!

Dunque il “Don” venne sostituito dall’“Eccellenza”!
Quell’appellativo, riconducibile ad una fama acquisita, gli suonava bene: Ec-cel-len-za!
Nel suo intimo si sentiva ripagato dei tanti sacrifici sostenuti in quella Parrocchia:
“Ec-cel-len-za!” ripeteva a se stesso.
E si guardava nello specchio.
Notò una vaga rassomiglianza con San Giacomo, il santo raffigurato in una delle pareti dell’absibe!
Il Santo era raffigurato in un sontuoso paludamento, con drappeggi ampi, ricchi e solenni.
Volle vedere la sua immagine riflessa anche con la Mitra in testa e con il Pastorale in mano.
Era proprio imponente.
Provò di atteggiare il viso alla nuova circostanza: non poteva presentarsi con quella faccia dimessa che aveva presentato fino ad allora.
Provò e riprovò varie espressioni, fintanto che si convinse di quella giusta: un misto di paterna commiserazione e di severa reprimenda.
Quell’espressione, secondo il suo punto di vista, avrebbe meglio rappresentato la dignità di una… Eccellenza!
Si accorse anche, per la prima volta, che la Canonica era molto modesta e priva di ogni minimo confort.
“Forse una stufetta per l’inverno, non ci starebbe male, sarebbe più dignitosa per la mia posizione” pensò.
Rammentava che una volta la Curia aveva promesso che avrebbe inviato una stufetta a legna ma ormai la rassegnazione aveva avuto il sopravvento e con la sua arguzia aveva concluso che il tutto era rimandato alle calende greche e cioè mai.
E, rammentando gli studi in Seminario, ci faceva pure una risatina pensando che il termine Kalendae indicava il primo giorno del mese, nel calendario romano, ma non esisteva nel calendario greco. Rimandare alle “calende greche” significava quindi aspettare invano.
“Ma il Vescovo, nella visita pastorale, poteva portarsi dietro anche la… stufetta!” pensò.
“Ma ormai, nella mia posizione devo essere superiore a certe cose” concludeva.

Insomma: Don Romeo si adattò, gongolante, alla nuova situazione!
Però… però, si sa come vanno le cose… a quell’età!
Incominciarono a serpeggiare nella sua mente certe congetture: “Sono sacerdote da cinquant’anni, ho sempre servito la Chiesa con obbedienza… Adesso, poi, che sono un’Eccellenza, è giusto che vada in giro con questo bastone? È dignitoso? No! Sembro un Don Abbondio qualsiasi o un curato di montagna come ce ne sono tanti!”
La sua mente, intaccata dall’età, incominciava a dar segni di “allarme”.

Si avvicinava la festività della Pentecoste.
“Pentecoste deriva dal greco e vuol dire cinquanta giorni – ricordò don Romeo – io festeggio i cinquant’anni di sacerdozio, non sono pochi, potrò poi meritarmi qualcosa in più di questo attrezzo in legno, no?”
Come riuscire a realizzare il suo progetto?
Era costoso!
Ma questo racconto non intende soffermarsi su certi particolari aspetti economici e marginali di scarsa importanza e poi indagare sull’operato di don Romeo potrebbe sembrare una mancanza di rispetto sul suo retto comportamento.
Dobbiamo registrare i fatti e i fatti prevedono questo nuovo particolare.
Insomma, il giorno solenne della Festività, fece il suo ingresso in Chiesa sostenuto da un suntuoso Pastorale, la cui estremità superiore, ricurva, era riccamente decorata.
Il suo incedere si dimostrò solenne: passo cadenzato e lento, sguardo pensoso, gesto ieratico e benedicente!
Ma fu il colore dei paramenti che strabiliò i fedeli: da “paonazzo” a “amaranto”!

I Parrocchiani, increduli e follemente stupiti, applaudirono calorosamente.
I pochi fedeli che avevano letto qualche brano nei testi sacri, quando lo videro entrare in Chiesa così paludato, si sentirono in dovere di esclamare, ad alta voce: Osanna… Osanna… il saluto reverenziale e di adorazione che la folla rivolse a Gesù che entrava a Gerusalemme.
Quando poi, don Romeo (lo chiamiamo ancora don Romeo?) al Sanctus pronunciò le sacre parole: “Osanna nell’alto dei cieli – benedetto Colui che viene nel nome del Signore – Osanna nell’alto dei cieli…” i fedeli ebbero la sensazione di capire meglio il senso di quelle parole e, quasi come un invito, si misero ad intonare di nuovo: “Osanna… Eccellenza… Osanna!”
Che sensazione ebbe il prelato!
Non voleva più finire la cerimonia!
Fece un paio di prediche poi, a malincuore, decise di chiudere il rito.
Nell’uscire dalla Chiesa, lui, don Romeo, sempre più imponente nell’incedere sorretto dalla mazza che simboleggia il potere dottrinale, incominciò ad impartire pompose benedizioni, con una solennità mai riscontrata in lui che era di carattere estremamente timido e poco appariscente.
Con la mano libera, invitò i fedeli ad alzarsi perché non era il caso di genuflettersi al suo passaggio anche se… beh! Lo ritenne un gesto appagante nel suo intimo!
“Però… quel Don Romeo… eh? Zitto, zitto fa carriera e non vuol dirlo” fu la voce dominante dei fedeli sempre più increduli, ma speranzosi.

Dopo pochi giorni, improvvisamente, all’anulare destro di don Romeo apparve un vistoso anello episcopale.
Anche il suo incedere in paese fu ancora più solenne.
Il passo abituale, strascicato e indolente, fu sostituito da una andatura più… armoniosa!
Agli stupefatti fedeli, che facevano ala al suo passaggio, porgeva la mano inanellata per un doveroso e devoto bacio di sudditanza.
Incominciarono le prime dispute fra i fedeli: “Non si offenderà se lo chiamiamo soltanto Eccellenza?”
Forse è più corretto chiamarlo Sua Eccellenza! Lui non è più Vescovo, l’avranno nominato Arcivescovo… e non ce lo vuole dire! Che sant’Uomo!”
E solo a pronunciare il suo nome, si facevano il segno della croce!

Il Paese restò frastornato: ogni giorno una novità!
Una mattina, lo zucchetto (a quattro angoli e tre spicchi!) apparve ai fedeli di color rosso scarlatto!
E il rocchetto? Quella sopravveste liturgica a mantellina di quel colore porpora?
Certo un errore!
Non osarono pensare ad un ulteriore avanzamento… troppo rapido.
“Quel birbante di don Romeo si è già fatto la scorta di zucchetti per l’avvenire e stamattina ha sbagliato colore!” fu il commento degli stupefatti parrocchiani.
Però, ci fu un notevole sconcerto quando la domenica seguente, alla Messa cantata, si presentò con un nuovo paio di scarpe di color rosso!
Rosso ponsò!
“No! Non è possibile! Un onore così ad un paesino come il nostro!” fu l’unanime coro.
Ecco il perché dello zucchetto rosso porpora! E quelle scarpe! È stato nominato Cardinale!”
Altro che Sua Eccellenza, è il caso di chiamarlo Sua Eminenza!
E incominciarono a chiamarlo così!
Il don Romeo di un tempo, camminava sorridendo, ormai a passi lenti per la sua notevole posizione ecclesiale acquisita (ma anche per le scarpe strette; quelle di color ponsò erano di un numero inferiore ai suoi piedi!), girando il corpo a destra e a sinistra per benedire i genuflessi parrocchiani sempre più estasiati e gongolanti.
E non chiamava più per nome i suoi “parrocchiani”: erano diventati tutti “Figli miei!”
“Visto che sorriso sornione?” commentarono i fedeli sempre più attenti a cogliere ogni sfumatura di questa rapida metamorfosi dovuta ad una carriera ecclesiale così rapida “non è un sorriso strafottente… no! È un benevolo sorriso, quasi a ringraziamento della nostra capacità di cogliere al volo, gli aspetti salienti del suo riconosciuto merito”.
E si compiacevano a vicenda!

Da parte sua, don Romeo, passava molto del suo tempo libero davanti allo specchio ripetendo, alla sua immagine, “Sua E-mi-nen-za…”
E, con gesto rapido, sollevava la lunga veste per ammirare le sue scarpe.
Gli piacevano quelle scarpe rosse, con una vistosa fibbia!
Ma si sa come vanno certe cose.
Faceva anche pensieri un po’ presuntuosi: “Spesso al titolo di Eminenza si usa aggiungere: Eccellentissima e Reverendissima”, nei casi particolari.
E il suo, non poteva essere un caso particolare?
Poi, con un sorriso di generoso compatimento, aggiungeva: “Ma queste cose ecclesiali non possono conoscerle i miei modesti parrocchiani e non sta a me suggerirle, perbacco!”

Una mattina, arrivò in paese un macchinone tutto nero con tendine.
Si fermò davanti alla Chiesa.
Il fatto non poteva passare inosservato
I cittadini capirono al volo e si misero a fare il passa-parola:
“Ci portano a Roma il nostro Cardinale!”
Presi così alla sprovvista, non seppero reagire.
Poterono solo assistere alla scena che si svolse sotto i loro occhi.
Dalla “macchina nera” scesero sveltamente alcuni prelati e due signori in camice bianco.
Entrarono in Canonica frettolosamente, quasi nervosamente.
La notizia si propagò rapida in paese e molta gente si precipitò davanti al sagrato.
“Sì… ce lo portano proprio via… quelli ce lo portano a Roma, in Vaticano!”
Ci fu una specie di sollevazione popolare
Quando don Romeo uscì, sorretto benevolmente sotto le ascelle dai due signori in camice bianco, si rivolse ai suoi fedeli, fece un atto benedicente con tre dita leggermente ricurve e:
“Non preoccupatevi figlioli, – disse, strizzando un occhio – fra pochi giorni NOI torneremo!”

Parlava già col “Pluralis Maiestatis!”
E in mano teneva, bene in evidenza, una papalina bianca!

È passato un po’ di tempo.
Non è ancora tornato in paese, quel Sant’uomo, ma tutti i parrocchiani sono ormai rassegnati.
Sono rassegnati e aspettano il prossimo Conclave.
Sanno benissimo che non sarà un Conclave lungo e dall’esito incerto.
Sarà brevissimo.
La fumata bianca avverrà dopo pochi scrutini.
Per i “parrocchiani” non sussistono incertezze.
Dopo la fumata bianca non ci dovrebbe essere alcuna attesa per il nome del nuovo Pontefice.
Il Cardinale Protodiacono, dal balcone fatidico, dal quale furono annunciati i vari successori di San Pietro, scandirà, con la voce di circostanza, alla folla riunita in piazza San Pietro:
“Annuntio vobis gaudium magnum… habemsus Papum! Eminentissimum ac Reverendissum Dominum Sanctae Romanae… Ecclesiae Cardinale… qui sibi nomen imposuit: ROMEO I”.

[continua]


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it