La clessidra vuota

di

Brunella Pernigotti


Brunella Pernigotti - La clessidra vuota
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 238 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6037-5124

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Questo racconto è frutto dell’immaginazione dell’autore. Nomi, personaggi, luoghi e situazioni sono inventati e qualunque loro eventuale attinenza con il reale è puramente casuale.


Introduzione

Osservando, quasi spiandoli, i percorsi psicologici che ognuno di noi segue nella vita, si può arrivare a cogliere quell’attimo impalpabile e unico, quel momento cangiante, che ci porta a compiere il passo che ci farà cambiare, che ci permetterà di salire un gradino in più verso la consapevolezza di noi stessi.
In questo romanzo c‘è il tentativo di svelare, attraverso una prospettiva soggettiva, i percorsi razionali ed irrazionali, che determinano i comportamenti degli esseri umani e in particolare delle donne
I personaggi sono frutto della fantasia, ma i ruoli, i sentimenti e le emozioni descritti derivano dall’esperienza reale di chi ha vissuto cercando sempre di indagare le ragioni dell’esistenza propria e altrui. Nel racconto si vuole porre l’attenzione soprattutto sulla vita di quelle tante donne che vivono una silente “apnea” esistenziale, prigioniere dei loro molti ruoli, nonché su tutte quelle occasioni di incontro e di vera conoscenza empatica, che uomini e donne spesso non colgono ma che, in realtà, potrebbero dare un significato nuovo e vitale al termine “umanità”.

L’autrice


La clessidra vuota

A mamma e papà:
“Il tempo passa… ma il bene resta”


Qualcuno dice che dal momento in cui nasciamo incominciamo a dimenticare.
Ogni storia, dunque, non ha un inizio né una fine. Tutto accade ma nulla è accaduto, come nell’eterno presente di una
clessidra vuota. Il tempo non è una retta che ci proietta in un futuro oscuro e remoto, il tempo è circolare, come la
sferaterrestre, come l’universo, come tutto quello che va e ritorna…

Ringraziamenti

Grazie a Stefano, che, con amore, pazienza, obiettività e rigore, mi ha aiutata nelle correzioni e nella stesura
definitiva, fornendomi consigli e suggerimenti preziosi.
Grazie a Bruna, che, con fraterna amicizia, mi ha sostenuta e spronata a portare avanti questa impresa.
Grazie a tutti coloro che mi hanno incoraggiata con il loro sincero affetto.


Capitolo I

Dalla terra ferma l’isola appariva come un felino in agguato: un dorso violetto, un brivido dell’oceano colto e fissato nell’attimo. Dal traghetto il suo contorno si delineava dapprima dolce come l’increspatura di un’onda, ma diventava poi un solido scoglio, solo e assediato da un mondo d’acqua, man mano che l’occhio poteva ingrandire l’obiettivo e i particolari emergevano nitidi: un piccolo approdo, che pareva attaccato alla terra con la colla come un giocattolo molto usato e, alle sue spalle, un sentiero che, torcendosi, subito saliva sfuggendo alla vista, quasi come a indicare che la strada giusta non è sempre quella più definita e chiara. Poi comparivano le rocce e la vegetazione, che regnavano sull’isola esercitando un potere e un fascino antico; infine, avvicinandosi sempre più, il gruppo di turisti poteva scorgere l’essenza stessa dell’isola: una macchia di verde fresco e di bianco abbacinante, un miscuglio di colori su una tavolozza, disordinati ma resistenti agli spruzzi del blu metallico che li circondava da infinite distanze.
Ciò che aveva affascinato ogni singolo membro del piccolo gruppo di persone che si erano messe in viaggio e che ora dall’imbarcazione osservavano la sagoma dell’isola, era l’idea che quello fosse l’ultimo baluardo, apparentemente fragile, del continente: l’isola pareva il puntino di un punto esclamativo, posto ad affermare la resistenza e la solidità di un pugno di terra, immersa nell’immensità dell’oceano
Ognuno, per ragioni diverse, era salito sul traghetto con un’aspettativa che andava ben oltre l’intermezzo di un viaggio o di una vacanza. L’isolamento, che quel tratto roccioso e selvaggio rappresentava, era qualcosa con cui volevano, più o meno consapevolmente, misurarsi.
La giornata era luminosa e tersa, il vento increspava in superficie le profondità pulsanti dell’acqua, gli uccelli marini, padroni incontrastati dell’intera regione, seguivano stridendo la scia lasciata dall’imbarcazione che, sbuffando come una locomotiva di mare, si allontanava dal continente, diretta all’isola a nord-ovest.
In un’ora raggiunsero la minuscola darsena, dove li attendeva una specie di furgone, metà fuoristrada e metà pulmino. L’isola pareva disabitata e, a parte il veicolo, non c’era neppure un segno di vita umana. Le persone che sbarcarono ebbero l’impressione di essere arrivati in un posto sovranamente indifferente alle conquiste della moderna civiltà: niente case, né negozi, né traffico, solo terra, mare, cielo.
Il gruppo, formato da sconosciuti per nulla inclini alla conversazione durante il viaggio, al momento di lasciare il traghetto, ultimo cordone che li legava al mondo abituale, si animò e tutti incominciarono a parlare tra loro come se si conoscessero già da molto tempo, uniti da uno stesso destino. Chi si occupava dei bagagli, chi si preoccupava del luogo, ancora invisibile, ove avrebbero alloggiato. Parlavano tutti assieme, per non avere il tempo di sentire quel vago disagio che li turbava, ora che erano realmente approdati ad una nuova esperienza, quella che avevano cercato di immaginare nei giorni precedenti la partenza.
Dal pulmino uscì un uomo sui sessant’anni, dal fisico asciutto e robusto come il tronco di un albero, i capelli erano più lunghi del normale per un uomo di quell’età, ma egli portava i suoi riccioli sciolti con naturalezza selvatica e consapevole. Aveva un viso reso bruno dall’aria e dal sole e due occhi che brillavano e lanciavano bonari lampi azzurri, attraverso le palpebre socchiuse, abituate a fare ombra.
Li accolse con un’energica stretta di mano e con voce decisa si presentò: “Sono Petre, il proprietario dell’albergo”. La parola albergo, su quel fazzoletto di terra, risuonò un tantino altisonante, ma il suo tono non ammetteva esitazioni e comunque rassicurò i suoi ospiti, che, come bravi bambini, seguirono il suo esempio e si presentarono anch’essi.
“Piacere, mi chiamo Margareth Mellow, sono la giornalista incaricata di quel servizio, ci siamo sentiti la settimana scorsa, ricorda?”
“Noi siamo Albert e Ann Korr, siamo quelli che hanno prenotato la stanza matrimoniale” – spiegò con un certo imbarazzo Albert Korr, mentre la moglie aggiungeva timidamente: “Sì! Questo è il nostro viaggio per festeggiare trent’anni di matrimonio”.
“Antoine Majer, piacere” disse l’altro uomo della comitiva, mentre si metteva la sacca a tracolla, e, con l’altra mano, teneva, quasi proteggeva, quella che pareva essere la custodia di un violino.
“Mi chiamo Felicita Navarro” – disse, quasi sussurrando, l’ultima passeggera: una ragazza bruna dallo sguardo profondo e malinconico.
Petre strinse la mano a tutti con un sorriso frettoloso, guardandoli negli occhi e poi rivolgendo lo sguardo all’orizzonte, come se aspettasse qualcuno o qualcosa e la sua vita dipendesse da quell’arrivo, o, forse, perché semplicemente non poteva resistere un solo istante senza guardare il punto lontano e misterioso dove il cielo e il mare si fondevano.
La giornata volgeva al termine: era il momento in cui l’estate allarga le braccia, come una donna che si stira dopo un lungo sonno e a quelle latitudini la luce, verso sera, assumeva una gamma straordinaria di colori sfumati, addolcendo gli spuntoni di roccia e avvolgendo terra e mare con riflessi prima dorati, poi ramati e, in ultimo, violetti. I nuovi arrivati si guardarono intorno per cogliere la bellezza di quel momento, spaesati, quasi incapaci di riconoscere e accogliere la sensazione di pace e, insieme, di stupore, che li invadeva: mai un posto aveva comunicato loro un tale senso di potenza e di infinito come quell’isola.
“Benvenuti a Nowland!” – disse Petre, indovinando i pensieri che attraversavano la mente dei suoi ospiti. “Conviene affrettarsi, qui la notte scende in fretta e mia moglie ci sta aspettando”.
Il gruppo si mosse disordinatamente verso il pulmino. Come destati all’improvviso da un piacevole sogno, tornarono ad occuparsi di questioni pratiche e urgenti domandando dove sistemare i bagagli, quanto distante fosse l’albergo, chi si sarebbe seduto davanti. Petre, pazientemente, li aiutò a salire e, quasi divertito, li osservò mentre si affannavano a riprendere il contatto con la realtà. Conosceva bene l’effetto che l’isola poteva avere su uomini abituati a vivere nelle grandi città e lontano da quel fascino naturale.
Una volta caricato il suo bagaglio umano, il pulmino si avviò arrampicandosi su per il sentiero sterrato e Felicita, che era seduta dietro, poté scorgere, voltandosi, la distesa blu che poco prima avevano attraversato e che ora era di nuovo solcata dalla scia del traghetto che tornava a terra, richiudendo, come una cerniera a lampo, quel tratto di acqua che li divideva dal resto del mondo.
Il pulmino, superato il punto più alto e scosceso della strada, incominciò a scendere dall’altra parte. Il versante dell’isola che finora era rimasto nascosto alla vista era meno ripido e accidentato; si potevano scorgere in basso una lunga scogliera e una piccola spiaggia protetta dalle onde dell’oceano, mentre il sentiero proseguiva a mezza costa, finché non apparve, in lontananza, l’albergo, unico segno di civiltà sull’isola.
Come tranquillizzati da quella vista, alcuni passeggeri incominciarono a rivolgere domande e ognuno percepì finalmente la reale presenza degli altri, non dando più retta ai propri pensieri.
“Perché questo nome, Nowland?” – chiese Margareth – “Perché Terra del Presente?” Tale curiosità era collegata all’immagine che la giornalista aveva notato la prima volta che aveva visto il logo dell’isola su un depliant pubblicitario: una clessidra vuota.
“Sì, il suo nome potrebbe essere interpretato così, anche se il suo reale significato è un altro. Il nome ha origine da Terra a Nord-Ovest, cioè dall’esclamazione dei primi marinai che la scoprirono; infatti è la più a nord-ovest delle terre emerse di questo continente. Oltre c‘è solo l’oceano”. Così spiegò Petre, che lasciò in sospeso la frase su un ampio gesto del braccio. Tutti tacquero un momento, assaliti di nuovo da quella sensazione di infinito assoluto che avevano avvertito non appena erano sbarcati: una vertigine dovuta all’improvvisa mancanza di sicurezza data dallo scorrere del tempo in uno spazio conosciuto. Irrazionalmente sentivano che in qualche modo il nome dell’isola era legato ad un “adesso”, ad un momento presente, inafferrabile eppure così tangibile!
Petre continuò: “Il suo nome, però, legato all’atmosfera che regna sull’isola, invita a vivere liberi dalle solite abitudini, prima tra queste quella di guardare sempre l’orologio. Vi consiglio di provarci!” – concluse ammiccando.
Il silenzio cadde sul gruppo e anche Albert Korr tacque: non osò più continuare a voler coinvolgere Margareth in una sterile polemica sul costo del biglietto del traghetto che non era stato compreso nel pacchetto turistico acquistato in città. Ann guardava fuori dal finestrino, ma dal vetro le veniva restituita la propria immagine insieme al velo di rassegnazione che copriva i suoi occhi. Si stava domandando dove si sarebbe potuta trovare in quel momento, se la sua vita avesse preso una piega diversa.
Mentre il pulmino procedeva sobbalzando, tutti tenevano gli occhi puntati sullo straordinario spettacolo che la natura in quel luogo offriva capricciosamente tutte le sere, incurante del fatto che ci fosse o no un pubblico in grado di apprezzare e applaudire. La luce del sole al tramonto orlava di fiamme il bordo inferiore delle nuvole violette che galleggiavano in fondo all’orizzonte; pareva che laggiù ci fosse un continente fantasma e che le sue montagne ardessero come alti vulcani. Nell’ombra si incominciò ad intravedere più distintamente la sagoma dell’albergo: una costruzione acquattata in un pianoro, tra pochi alberi e una vegetazione selvatica. Da quella radura alcuni sentieri partivano per scendere ripidamente verso le scogliere e la schiuma delle onde, mentre altri si inerpicavano sui fianchi dell’isola, alla ricerca del punto più alto da cui sarebbe stato possibile dominare terra e mare.
L’albergo aveva le finestre già illuminate e donava una sensazione famigliare di solida intimità, con la sua ampia e candida facciata e il tetto spiovente, sostenuto da travi di legno scuro. Il camino doveva essere acceso poiché un filo di fumo animava il tratto di cielo al di sopra della casa.
Quando arrivarono nel piccolo cortile un grosso cane dal pelo biondo e arruffato si avvicinò uggiolando e regalò a Petre, non appena scese, un impetuoso abbraccio, completato da un’affettuosa leccata sul naso.
Petre tirò fuori con decisione i bagagli dal pulmino e fece strada ai suoi ospiti dicendo: “Non abbiate paura di Flyn. È un buon cane da guardia, ma è anche un buon commerciante: non spaventerebbe mai dei clienti! Venite, vi presento mia moglie Therese e attenti all’ultimo gradino, di solito nessuno lo vede”. Difatti i nuovi arrivati salirono un po’ titubanti la piccola scala di legno che li portava all’ingresso, ma, guardandosi indietro timorosi che Flyn tributasse anche a loro lo stesso trattamento, inciamparono goffamente nell’ulteriore gradino che li conduceva in un’ampia sala. Una volta entrati, li accolsero il tepore e la luce soffusa del fuoco che ardeva nel camino in fondo al soggiorno.
L’ambiente ricordava molto una normale abitazione, c’erano tappeti e poltrone sparse e le pareti erano tappezzate di scaffali in legno chiaro, carichi di libri di ogni genere, tutti evidentemente letti e vissuti. Un arco apriva la strada verso la sala da pranzo, anche quella raccolta e intima. Gli ospiti sentirono subito la differenza di temperatura dall’esterno all’interno, non perché fuori facesse realmente freddo, ma perché dentro c’era un caldo profumo che li avvolgeva e cullava come l’atmosfera di casa.
Dalla porta della cucina arrivò sorridente Therese, una donna non tanto alta, con un grande grembiule che la copriva interamente, quasi a sostenere la sua gracile figura. Aveva occhi neri, profondi e segnati, che contrastavano con l’aureola di capelli candidi che le circondavano il viso. Sorrideva, ma l’espressione era di attesa: chi erano e quali novità avrebbero portato i nuovi ospiti? Li scrutò ad uno ad uno mentre stringeva loro le mani, con la recondita speranza di incontrare in qualcuno di loro un viso conosciuto, una traccia, un indizio, un ritorno.
Margareth notò subito che sulla mensola del camino faceva bella vista di sé una clessidra vuota, la stessa del logo pubblicitario.

__[continua]

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