Opere di

Arianna Lenzi

Con questo racconto è risultata 7^ classificata – Sezione narrativa alla XIV edizione Premio Letterario Il Club dei Poeti 2010


Questa la motivazione della Giuria: «Un racconto che sprigiona un senso di struggente amore di una figlia nei confronti della madre. Una bambola del Trentino rappresentava, simbolicamente, tutto ciò che la madre non vedeva più nella figura della figlia: e cioè una donna che non aveva più bisogno delle sue cure, delle sue premure ed attenzioni. La forza dell’amore che porta con sé una profonda generosità: la possibilità di guardare nell’universo delle nostre diversità eppure essere “fibre” dello stesso amore». Massimo Barile»


«Stella»

Il giovedì sera era ormai diventato un rituale, un appuntamento che aspettava con ansia.
Lo si vedeva dalla luce che irradiavano i suoi occhi grandi.
Una strana gioia attraversava l’aria, un entusiasmo così semplice e puro che in tutto il suo fulgore a volte pareva accecarmi.
Guardandola provavo un’amara tristezza, come una nebbia che dal mio cuore partiva a raggera, espandendosi, diffondendosi in ogni cellula.
Ero triste perché, nonostante tutto, invidiavo quella semplicità che io non riuscivo a fare mia, ci provavo, ma la realtà di un mondo in cui la semplicità veniva distrutta dall’effimero apparire troncava sul nascere i miei buoni propositi.
La invidiavo, e sapevo quanto questo fosse assurdo, ma quel suo sguardo sincero mi atterriva, mi faceva sentire una stupida.
Non ci sono parole per descrivere i pensieri che attraversavano la mia testa mentre la guardavo disegnare, una pila di fogli bianchi davanti a lei, la busta dei pennarelli il cui contenuto era riversato sulla tovaglia di plastica, un sorriso perenne anche quando, alzando lo sguardo dal mio libro, notavo che si era bloccata su di un dettaglio del disegno.
Ho visto passare interi mondi su quella tovaglia, così come soli ed orizzonti infuocati avevano per un attimo illuminato quei nostri minuti assieme.
Pesci ed ombrelloni erano però un lavoro che mi riservava con devozione: dettagli stabiliti, particolari associazioni che, nonostante le numerose volte in cui mi avesse vista ripeterle, erano destinate alla mia mano abile.
I pesci che nuotavano nell’immensa distesa acquosa erano rigorosamente rossi, così come rispettivamente gli ombrelloni erano a spicchi gialli e azzurri.
Tradizione che non ci stancava mai e che aveva il potere di essere come un appuntamento, un tacito accordo che rimandava nel tempo il momento in cui tutto ciò avrebbe cambiato colore, significando un mutamento che cercavamo di allontanare il più possibile.
Scordavamo la realtà mentre i suoi tratti incerti arrivavano a colorare anche il mio mondo fatto di speranze e desideri confusi.

La nostra umanità era enormemente stimolata da questo, e quando dopo il primo momento, la tristezza e quell’irrazionale senso d’inferiorità venivano allontanati dalla mia anima, c’era spazio solo per un calore che dipingeva sul mio volto lo stesso sorriso che lei aveva ogni volta che la guardavo.
Un po’ della sua semplicità attraversava la mia pelle, accarezzava ossa e muscoli, un brivido tiepido che mi faceva provare sentimenti che non ero abituata a mostrare.
Avevo sempre custodito gelosamente ciò che reputavo importante, la paura di perdere tutto mi spingeva a rinunciare all’esteriorità ed impulsività del mio carattere, mi faceva sembrare dura, fredda, distaccata.
Spesso avrei voluto urlare.
Avevo paura che questo pregiudizio avesse intaccato il mio cuore, rendendomi davvero così cinica e poco incline ai sentimentalismi.
Non me ne accorgevo nemmeno io, ma a volte il fatto che mi sentissi indifferente ad una determinata situazione era causato da una mancanza di energia, un bisogno di crogiolarmi da sola in ciò che provavo, temendo che esponendolo alle intemperie del mondo esterno potesse essere contaminato.
Paventavo l’idea di affrontare le conseguenze dei sentimenti, ciò che portava cambiamento, ciò che mi avrebbe potuto costringere a prendere decisioni che non credevo di essere in grado di affrontare.
Ora l’ho ammesso, forse per la prima volta.
Avevo paura del futuro, temevo che i miei sogni venissero spazzati via come foglie in balìa dei primi venti autunnali.
Chiudevo gli occhi e silenziosamente mi trascinavo nella vita, il cuore colmo di terrore ed incertezza.

Le piaceva sedersi sul mio letto a gambe incrociate, ma la cosa che amava di più in assoluto era una bambola che avevo comprato durante una vacanza in Trentino Alto Adige.
Premendole la pancia dalla sua piccola cassa toracica scaturiva una musica jodeln che mi ricordava tanto le montagne e il profumo inebriante di una libertà che in quel momento giaceva sepolta sotto pile di libri e decine di disequazioni frazionarie.
Seduta alla scrivania ero rassicurata dalla sua presenza dietro di me, una dolce consapevolezza che prorompeva in un canto altoatesino, unendosi alla sua risata.
Sembrava un orsetto, piccola e rotonda, circondata da peluche e cuscini colorati, i riccioli scuri che danzavano a ritmo con il suo riso.
Di nuovo invidiavo il suo entusiasmo per le piccole cose, avrei voluto che il suo sorriso ci fosse sempre, soprattutto nei momenti in cui il mio spariva senza alcuna intenzione di far ritorno.
Ed io, nel mio egoismo, non ho mai avuto il coraggio di regalarle quella bambola.

Credo che mia mamma in lei vedesse ciò che io non ero più: una persona bisognosa delle sue cure e delle sue premure.
Preparare la cena era, per la prima volta nella sua vita, diventato qualcosa da cui poter ricavare piacere.
Non aveva talento e non amava i sottili giochi che si celano dietro l’arte culinaria, per lei era un dovere da portare a termine, senza passione o troppe attenzioni, ma in quel momento era come se il suo orgoglio venisse accarezzato dolcemente, ogni cosa si colmava di nuovi sapori, sfumature di gusto e profumi d’affetto cieco ed incondizionato.
Ogni cosa era “super”, persino l’oliva sgocciolata dalla salamoia e la cipollina sottaceto, tutto veniva gustato con sano appetito e sguardo ridente.
«Mangia piano Stella, che nessuno ti ruba niente».
Non c’era cattiveria nelle nostre parole, solo interesse guidato dall’affetto.
E allora lei incominciava a sghignazzare, con quel suo riso cristallino e lieto, e noi non potevamo che fare lo stesso.

Credo avrebbe potuto tappezzare una casa intera con i disegni che aveva fatto seduta al tavolo della mia cucina.
Chilometri di verdi campi da calcio su cui correva senza sosta la sua squadra del cuore, il Milan.
Impavido cuore rossonero a cui univa giocatori che probabilmente la società sportiva non avrebbe mai comprato: lei e mio fratello Nicola, a cui era particolarmente legata.
E poi c’erano immense distese d’acqua, onde che avevano la violenza di un sentimento forte, navi che solcavano acque cristalline e proseguivano la loro traversata verso luoghi infiniti, fantastici, sole ardente e dorato che sfiorava la terra e donava il suo calore con generosità… nella dolcezza di quei caratteri infantili c’era un universo che si schiudeva cautamente, si manifestava in una diversità che ci rendeva tutti uguali, fibre d’amore e dolci parole non sussurrate.

Arianna Lenzi


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