Opere di

Antonio Urru


Con questo racconto è risultato 2° classificato nella XVII Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2013 – Sezione narrativa –


Questa la motivazione della Giuria: «Il mistero della vita può essere anche rappresentato dall’immagine di una donna a fianco del suo uomo in una stanza del reparto di rianimazione quando si fa fatica a ricercare un senso dell’esistenza. Un viaggio interiore, tra sentimento puro e l’assurdo della vita: con la consapevolezza che “l’amore non si spegne mai”, la sua forza supera il tempo concesso, spazia in una dimensione sovrumana».

Massimo Barile


Il più bello dei mari

La sala n° 14 al dodicesimo piano del reparto di rianimazione era bianca e fredda. All’interno un arredamento spartano: due letti e due comodini color panna. Una luce giallognola filtrava dalle veneziane illuminando la stanza. Oltre la finestra si intravedeva il profilo aguzzo dei monti. Alti e maestosi parevano imperiosi giganti sopra le miserie del mondo. Miserie davvero, a guardare il paziente del letto, inerte con al fianco una donna giovane, stretta nelle spalle, a capo chino. La mano di lei stringeva la mano di lui, che pareva non comunicare più, quasi avesse già varcato quelle invisibili frontiere che portano alla terra di nessuno, come un uccello nella stagione fredda. Lei, di tanto in tanto, provava a parlargli, alternando sospiri a prolungati silenzi. «Ricordi– gli diceva – ricordi le campane del tuo paese, il tuo borgo d’infanzia sospeso sulle colline? E le buganvillea? E i profumi di zagara, le passeggiate al molo? E i nostri baci, li ricordi? E i nostri figli?». Diceva così, soffocando le lacrime. Ma ogni parola cadeva nel vuoto, e tutto pareva vano, come l’amore che sentiva essere ancora in grado di dargli, come il calore della sua mano, incapace di infondere ora quella vita mille volte infusa attraverso quel semplice contatto. Allora uno sconforto prese a crescere in lei, posandosi sul suo animo fragile e invadendone ogni angolo, come la nebbia impalpabile sulle distese erbose del nord. In quel frangente prese a domandarsi dove fosse quella forza segreta che aveva saputo operare sulle loro vite in modo così sublime, facendo germogliare nel giardino dei giorni le ore più belle e fiorire sulla loro bocca parole di cui non si sarebbero creduti capaci. Era stata quella forza che aveva suggerito la via che dai marosi della passione giunge al porto della genitorialità. E il giorno in cui lei aveva messo al mondo i suoi figli, per la prima volta, aveva compreso quanto si fosse fatto remoto quel gioco ingenuo di sguardi, ora che era diventata madre. Mentre lei pensava a questo un’infermiera entrò e le chiese di uscire. Lei domandò: «Ce la farà?». L’infermiera la guardò con un’espressione compassionevole e scrollò le spalle. Allora sul suo viso scesero calde lacrime e appena rientrata nella stanza cercò subito gli occhi di lui. Ma al loro posto, dietro i bei sopraccigli folti, trovò solo un’ombra buia e remota. Al braccio una flebo scandiva, goccia dopo goccia, un tempo fattosi intangibile. La misura dell’eterno, pensò lei. Fu allora che per la prima volta si sentì davvero perduta, come il naufrago che ha smarrito la rotta. La sua mente andò al mistero dell’esistenza, al tutto e al nulla, al piacere e al dolore, e ne dedusse che nessun opposto è veramente tale, se alla fine può ricongiungersi in un punto come al vertice di un cerchio. Così sentiva ogni gioia trapassare in pianto, il vorticoso fiume del tempo raggiungerla con la sua piena rovinosa, sottraendole d’un fiato le ore, i giorni, l’amore vissuto. E tutto le apparve non solo vano, perfino ridicolo, ripensando a quelle ore e giorni andati, coltivati con zelo religioso come si coltiva un culto anziché un idolo vuoto. Riguardò di nuovo il liquido della flebo e considerò quanto siamo materia inerte, nonostante disponiamo di uno spirito che trascende l’infinito. Fu allora che le venne in mente l’immagine di una cattedrale, maestosa con le sue guglie e i suoi pinnacoli. Pensò alla bellezza degli stucchi, alle vetrate policrome, agli affreschi sublimi. Pensò che la sua vita era stata questa cattedrale. Pensò a quanta fatica e bellezza era costata edificarla e che senza l’uomo che giaceva su quel letto accanto non le sarebbe stato più possibile innalzare nulla. Considerò che i pinnacoli più alti erano i due figli. Considerò, anche, che questa cattedrale, per un alito maligno, veniva ora giù, prima del tempo, per uno schianto che nessun architetto avrebbe saputo prevedere. E pensò anche alle sue spalle gracili, troppo gracili per reggere il peso del crollo, a sostenere le architravi precipitanti in un polveroso cumulo di macerie. Pensò a tutto questo, senza riuscire mai a trovare il senso di niente. Cercò senza trovarle le parole tra loro sussurrate negli anni felici, ma non trovò che crisalidi vuote, eco fredda di suoni rimbombanti nella sua mente prostrata. Si convinse che se avesse ritrovato anche una sola di quelle parole, forse quel corpo lì davanti, consumato da un male oscuro, si sarebbe risvegliato, ritornando a parlargli come una volta. «Come stai, amore?» gli avrebbe chiesto. «E i bimbi come stanno? Hanno pianto oggi a scuola?». Così credeva. Ma subito si convinse che non avrebbe trovato nessuna parola, perché certe cose, per trovarle, bisogna volerle in due, come la scintilla ha bisogno di due pietre per sprigionarsi. Alla fine di questa tempestosa ridda di pensieri, si sentì sopraffatta e affranta, come se in quel tempo trascorso lì, al capezzale dell’uomo che più amava, non si fosse consumato solo un pugno d’ore ma un’intera esistenza, rivissuta in un periplo interiore compiuto attorno all’equatore mobile del suo cuore. Ritornò allora a chiamarlo. Una volta, due volte. Ma Carlo non rispondeva. Poi, al terzo richiamo, un piccolo fremito. Come riavendosi, lui volse il capo. I suoi occhi abbacinati tornarono ad incontrare gli occhi di lei. E in quell’attimo rifiorì l’eterno. Lui lesse tutti i suoi pensieri e le sue domande irrisolte. Con uno sguardo scandagliò ogni suo intimo dubbio. E rivide il tutto e il nulla della sua mente, i vertici del piacere vissuto e la cuna del dolore presente, l’assurdo e il senso che è in ogni cosa. Con la bocca impastata, le disse: «Amore… ricordati: non importa… se il vissuto è stato tutto o solo nulla. E sappi…. che anche se io sarò con te per poco… tu sarai con me per sempre». Le spalle di lei ebbero un fremito, il petto sussultò, stupendo di come l’amore trovasse sempre una sua via per arrivare al cuore. «E poi… non piangere», le disse. Quindi inspirò e lentamente continuò. «Ricordi… ricordi la volta in cui ti scrissi: Il più bello dei mari è quello che non navigammo?». I suoi occhi brillarono. Ricordava. Erano state le sue prime parole dedicate a lei, quando si erano appena conosciuti, versi appresi nella poesia di un poeta turco che aveva molto amato. Lei si strinse nelle spalle e riuscì appena a dire: «Sì, mi ricordo». Poi gli fece cenno che proseguisse. «Senti il battito della mia mano? Si spegne… tra poco cesserà… Solo l’amore pulsa di una vita propria e non si spegne mai. Ciò che tra noi è stato non può mai diventare nulla. Nulla è come una cattedrale che si disfa e crolla, nessuna spalla è troppo fragile per sostenere il peso d’una cattedrale d’amore… Anche un lutto è un pinnacolo più alto se eretto su una storia grande». Lei annuiva, lasciando che le sue parole facessero il loro corso e ritrovassero l’antica via del cuore, come il viandante la sua antica casa. «Ricordi come la poesia continuava?» disse ancora lui stentatamente. «Sì» rispose lei «Ebbene, il più bello dei mari lo abbiamo navigato… il più bello dei nostri figli è già nato… il più bello dei nostri giorni è stato già vissuto. Ma…». «Ma?» domandò lei con un filo di voce. «Ma… quello che di più bello volevo dirti, non te l’ho ancora detto». Lei sollevò il capo e lo guardò con stupore «E cos’è che non mi hai ancora detto?». «Quello – le disse spegnendoglisi la voce in gola – quello sarà quanto leggerai ogni giorno negli occhi dei nostri figli». A queste parole gli occhi di lei tornarono a rigarsi di pianto «No, amore – gli disse – no, no, quello che di più bello mi devi dire, voglio sentirlo da te». Ma lui non rispondeva più, i suoi occhi fissi verso lei, come l’astronomo alla sua stella, s’erano spersi già in un altro universo. A questo punto entrò l’infermiera, tastò il polso e gli abbassò le palpebre. Lei si coprì il volto con entrambe le mani. Cominciò a tremare. La cattedrale iniziò a crollare, scuotendo dai soffitti gli stucchi, sfarinando i calcinacci, precipitando giù con la mole delle guglie, giù dal vertice del mondo, dall’abisso dei cieli spalancati. Lei sentì le sue spalle troppo gracili e i tentacoli del dolore stringersi e abbrancarla. Fece qualche passo, vacillò, poi sopraffatta cadde a terra. Allora, da fuori dalla porta si udì la voce di un bimbo: «Mamma dove sei? Mamma vieni?». La madre, traendo da sé forze che credeva perdute, si ridestò. Aggrappandosi alla sponda si mise in piedi. Andò incontro e l’abbracciò, lo strinse a sé e sentì, allora, nel tepore dolce del figlio l’amore risorgere. Allora, era vero, l’amore edifica anche sopra le macerie, rinascendo come una cattedrale. L’amore è una voce che può tornare a parlare, anche cambiando accento. Perché l’amore non muore, ma solo si sposta, da una stanza ad un’altra, da un cuore all’altro, al mutare degli occhi e dei destini, oltre i monti che svettano dall’alto, al di là del bene e del male, fino all’ultimo respiro del mondo

Antonio Urru


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