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In copertina fotografia di Vincenzo Varisco
Prefazione
Nel romanzo “Bagliori notturni”, Antonia Casagrande racconta le vicende esistenziali del giovane Luca, che durante il suo percorso, già deve fare i conti con le difficoltà della vita: prima la dolorosa perdita del padre che contrae una grave malattia nella fabbrica in cui lavora, poi il difficile e sofferto rapporto con la madre che, per dimenticare, affoga il dispiacere nell’alcool e, nonostante sia l’unica figura di riferimento per il giovane Luca, si lascia trascinare nell’abisso di una grave depressione.
Fortunatamente non mancheranno alcune presenze positive come il nonno Alfio con il suo affetto e la sua capacità di comprensione, che gli insegnerà a guardare il cielo di notte, a “contare le stelle”, “a fidarsi di ciò che dicono”, a trarre dalla vita gli insegnamenti utili; così come la figura dello zio Eugenio, tornato dall’Australia dove era emigrato in cerca di lavoro; e poi, il compagno di scuola, l’amico Max, dall’aria vissuta e chiamato “chiodo” per la sua magrezza: un’amicizia che lascerà un segno indelebile e la consapevolezza che tutte le esperienze, quelle positive così come le negative, sono utili e “degne di essere vissute”; e infine, l’amico Arrigo, compagno in un viaggio in camper durante il quale conoscerà Marta, una ragazza che ha perso la madre da poco tempo e, dopo aver tentato il suicidio, si è ritrovata sulla sedia a rotelle. Sarà proprio l’incontro con Marta che toccherà nel profondo il giovane Luca e gli farà vivere il valore dei sentimenti, sentire sulla pelle la capacità di gustare la vita nelle “piccole cose” che offre, giorno dopo giorno.
E poi, a causa di un incidente in autobus, Serena, la madre di Luca conoscerà Elia e si innamorerà di lui, uno psichiatra che ha lavorato alcuni anni in un Centro di salute mentale ed ora vive da solo in mezzo ad un bosco quasi in un volontario esilio dopo lo choc causatogli dalla morte di un suo giovane paziente che si è suicidato in preda ad una grave crisi depressiva. Elia, chiamato da Luca, il “medico dell’anima”, aiuta la madre del ragazzo ad uscire dall’abisso, a ritornare a nuova vita e lo psichiatra riuscirà così a perdonarsi il fatto di non essere riuscito a salvare dalla depressione, alcuni anni prima, quel giovane paziente del Centro.
A fare da sfondo alle vicende v’è la presenza incombente della fabbrica dove lavorava il padre di Luca che, a causa di gravi e ripetuti incidenti, dai suoi stabilimenti emana sostanze tossiche, nubi di anidride solforosa mista ad acido solforico, causando numerose vittime: a tutto ciò si ricollegherà lo stesso finale del romanzo che risulterà imprevedibile e quanto mai inaspettato.
La scrittura di Antonia Casagrande riesce a rendere pulsante la storia e i personaggi inseriti nelle vicende del giovane protagonista, ne esalta la dimensione interiore, la genuinità, l’autenticità nel comportamento e nei sentimenti. La narrazione si alimenta delle esperienze esistenziali sempre raccontate con mano decisa e costantemente attenta a coglierne le sfumature, le sfaccettature, le contraddizioni mai indugiando più del dovuto su determinate situazioni. Ne emerge l’estrema attenzione nel riportare le emozioni, l’evoluzione della sfera affettiva e sentimentale, le fragilità e le speranze, ampliando ancor più la visione e la capacità di “guardarsi dentro”.
Il racconto di Antonia Casagrande non si ferma alla comprensione delle esperienze del giovane protagonista, ma, oltre alla necessità di superare il senso di solitudine, v’è la costante ricerca della “voglia di comunicare” e di intraprendere un nuovo cammino, guardare con occhi nuovi: il rapporto con il mondo risulta fondamentale così come la necessità di riscoprire gli insegnamenti della vita quotidiana che nascono dagli affetti della famiglia, dalle amicizie, dagli incontri casuali.
Antonia Casagrande apre lo sguardo alle riflessioni sul senso della perdita, sull’amore, sull’importanza della presenza d’una famiglia che possa rassicurare, sulla testimonianza dolorosa di un evento doloroso che può chiuderci alla vita: alla scoperta di una visione corale che elabora le emozioni e si conclude idealmente intrecciandole, miscelandole e impreziosendole.
In ultima analisi, si può dire che Antonia Casagrande si spinge ad interrogarsi sul senso dell’esistere, sul valore dei sentimenti, sul significato profondo dell’amicizia e, con la forza del linguaggio, scandaglia e presenta le vicende di “Bagliori notturni” quasi come confessioni che aiutano a chiudere le ferite e permettono ai protagonisti del suo romanzo di andare incontro all’esperienza della vita finalmente con animo sereno.
Massimo Barile
Bagliori notturni
Capitolo 1
I primi anni della mia infanzia li ho trascorsi sereni, con due genitori ed un nonno adorabili, e tanti, tanti amici.
Ricordo il periodo dell’asilo, la maestra che idolatravo, e tutte le mamme a cui mi ero affezionato e con cui condividevo le esperienze di gioco. La scuola materna era abbastanza distante da casa. Mamma mi metteva nello zainetto il pane con burro e marmellata e mi accompagnava alla fermata dello scuolabus.
Crebbi senza troppe privazioni. Papà faceva l’operaio e la sua retribuzione non era fra le più alte, non essendo specializzato, ma mamma provvedeva a far quadrare il bilancio con un’attività sartoriale. Aveva imparato a cucire dalla nonna e adesso quell’arte le era tornata utile per effettuare piccole riparazioni, tipo allungare gli orli delle gonne o stringere qualche vestito. Era conosciuta in tutto il paese come “la Sartina”, anche se a lei questo soprannome non piaceva e avrebbe voluto essere chiamata solo Serena.
Abitavamo in un caseggiato a fianco della strada ferrata, ai limiti del paese. Di treni ne passavano pochi, quattro al giorno, tutti frequentati esclusivamente da pendolari. Di notte si poteva dormire tranquilli, il silenzio regnava assoluto.
Come vi ho detto, non mi mancava nulla, o quasi.
Quello che mi mancava, sapevo di non poterlo avere.
Volevo un cane, lo desideravo con tutto me stesso, ma papà era inflessibile al riguardo: nessuna bestia in casa, nemmeno un pesce rosso. E non perché odiasse gli animali, tutt’altro.
Non voleva legami, nulla che lo costringesse a rivedere i suoi piani, in particolar modo per quanto riguardava le ferie estive.
Per lui erano una cosa irrinunciabile, dopo un anno di lavoro massacrante, e non voleva essere condizionato nei suoi spostamenti dalla presenza di un cane. Della pensione neanche a parlarne, troppo cara per le nostre finanze.
Così, non avendo nessuno a cui lasciarlo, avremmo dovuto portarcelo appresso dappertutto, con tutti i disagi che questo comporta. Per noi infatti le ferie non significavano relax, ma ci piaceva viaggiare alla scoperta di mondi nuovi ed un animale avrebbe condizionato non di poco i nostri spostamenti.
Mi ero rassegnato all’idea di farne a meno, finché un giorno accadde una cosa a dir poco…straordinaria.
Papà era appena uscito dal lavoro e si stava recando alla fermata dell’autobus, che sopraggiungeva a velocità sostenuta. D’improvviso un terrier si piazzò nel mezzo della carreggiata; sarebbe stato sicuramente investito se mio padre, adottando una straordinaria prontezza di riflessi, non lo avesse afferrato e tolto dalla strada.
Lo portò con sé in corriera, fino al capolinea dove io ero solito attenderlo, come ogni giorno.
Quel mastodontico mezzo di trasporto che mi sfiorò, mi mise paura come sempre; poi si arrestò bruscamente, vicino al cartello indicatore.
Il conducente, che era sempre lo stesso tutti i giorni, si divertiva a spaventarmi e rideva a crepapelle.
Alle sei del pomeriggio il sole scottava ancora, in quel luglio caldo e afoso.
Mio padre scese dal mezzo e mi corse incontro. Era grondante di sudore e la maglietta verde, tutta bagnata, lasciava scoperte due braccia muscolose ed irsute. Fra quelle braccia spuntava il muso spaventato del cucciolo:
«L’ho trovato in mezzo all’asfalto bollente, se non ci fossi stato io probabilmente avrebbe fatto una brutta fine.»
«Lo teniamo, papà?», fu la mia risposta immediata.
Lui mi guardava e non sapeva cosa dire.
«E vada, hai vinto tu», disse dopo qualche istante.
Non se la sentiva di abbandonare quella bestiola, già abbastanza provata.
«Trovagli un nome», mi disse.
«Ti va Tobia?», risposi.
«Se va bene a te, sì. Voglio che sia tu a sceglierlo.»
Da quel giorno il cucciolo ed io diventammo inseparabili e lui fu il compagno silenzioso e fedele delle mie giornate.
Capitolo 2
Frequentavo la quinta elementare quando conobbi Max. Lui era più grande di me, era in terza media e per giunta ripetente. Mi affascinò immediatamente la sua aria vissuta, da adulto, in un viso imberbe ancora da ragazzino. Portava i capelli biondi un po’ più lunghi del normale, ed una catena d’oro al collo; dal lobo sinistro pendeva un orecchino pure esso d’oro ed era sempre vestito in maniera stravagante.
Feci amicizia nel cortile della scuola, un giorno che i nostri compagni più grandi vennero a disputare un torneo di pallavolo. Lui era uno dei più alti della squadra ed anche per questo si distingueva.
Alla fine della partita venne verso di me, chissà perché, e mi domandò tutto accaldato:
«Dove posso trovare un posto per rinfrescarmi? Mi basterebbe anche solo una piccola fontana.»
«Per la fontana ti devi recare ai giardini pubblici. Se vuoi dell’acqua, comunque, ci sono i bagni qui vicino», risposi con ironia.
«Dove stanno?», continuò lui.
«Accanto alla palestra», fu la mia risposta.
«Che direzione devo prendere?», disse.
«Giri sulla sinistra e prosegui per una cinquantina di metri sempre diritto, non ti puoi sbagliare.»
Mi stava simpatico e ben presto diventammo inseparabili.
Lui era molto diverso da me, non tanto per l’età, quanto per l’ambiente di provenienza: viveva in una villa a schiera ed i suoi genitori lavoravano entrambi. Il padre era un noto commercialista della zona e la madre faceva l’insegnante.
Era figlio unico e non viveva di certo nelle ristrettezze.
A parte questo, stavamo molto bene insieme e la differenza di classe non ci pesava.
Max era magrissimo ed era soprannominato da tutti “Il chiodo”.
Personalmente mi dava fastidio quando qualcuno lo chiamava così, per me era sempre e solo Max.
C’era un’altra cosa che ci divideva: io frequentavo la parrocchia, anche perché mamma me lo imponeva, lui no, entrava raramente in Chiesa e solo per qualche ricorrenza particolare.
Quella mattina di fine giugno, con la moto nuova di zecca, si presentò sotto casa mia, attaccandosi con insistenza al campanello.
«Scendi, andiamo a fare un giro», mi disse.
«Che mostro!», urlai rivolto al bolide a due ruote.
«Me l’ha regalata mio padre per la promozione», fu la sua risposta.
«È una favola.»
Avrei voluto scendere di corsa le scale, ma mamma mi teneva per la collottola per non farmi andare.
«Stai scherzando, Luca? È pericoloso. Se papà lo sapesse…», disse lei.
«Ma papà è al lavoro, ti prego, lasciamela provare, Max è un esperto, ha già guidato parecchi scooter», implorai.
Fu così che dopo tante insistenze mi ritrovai sulla sella di quella moto sfavillante, pronto a lanciarmi verso nuove scoperte.
Il paese era attraversato da due arterie principali: una volgeva a nord, in direzione dei monti, l’altra ripiegava verso il mare. Max prese quest’ultima ad una velocità piuttosto sostenuta.
I filari di viti ci correvano incontro sempre uguali, mentre nubi minacciose si inseguivano nel cielo sopra di noi.
«Mi sa che fra poco qui succede il finimondo», urlò Max per farsi sentire da me.
La terra era arida, non pioveva da molto, e sicuramente sarebbe scoppiata una burrasca.
La campagna era disseminata di case coloniche, tutte costruite durante il periodo fascista: erano molto grandi ed avevano un’impronta austera.
Alcune di esse apparivano fatiscenti, lasciate all’abbandono più assoluto; altre invece erano abitate e tenute con molta cura, con ai balconi tanto di gerani rampicanti, dei più svariati colori.
Max aveva rallentato la corsa perché era cominciata a cadere la pioggia, dapprima molto debole, poi con gocce sempre più grosse ed insistenti.
«Ora cerchiamo un riparo, non ti preoccupare Luca.»
Prese una strada laterale completamente sterrata, che conduceva ad un’abitazione oramai in disuso.
«Qui non c’è nessuno e possiamo stare riparati finché cessa il temporale», proseguì Max.
Si trattava proprio di una perturbazione coi fiocchi, accompagnata da grandine e raffiche di vento.
Appena il ragazzo si fermò, scesi velocemente dalla moto e corsi ai ripari.
Max mi raggiunse, dopo aver estratto dal baule posteriore due stuoie di paglia intrecciata: «Dovevano servire per stenderci sulla sabbia, ma è andata diversamente; almeno eviteremo di stare seduti per terra.»
Mi sorrideva, in un modo diverso dal solito.
Si mise a sedere, estrasse dallo zainetto un pezzo di carta, vi mise sopra un po’ d’erba e lo arrotolò a mo’ di sigaretta:
«È marijuana, fatta con foglie di canapa indiana mescolate al tabacco, suvvia, fuma anche tu, ti aiuterà a sentirti meglio.»
«Non è mia intenzione drogarmi. Starò a guardarti, finché non avrai smesso», dissi.
Lui incalzò: «Lo faccio spesso quando voglio evadere, mi dà l’impressione di entrare in un mondo diverso e dimentico per un po’ i miei problemi.»
Ora aveva preso a ridere, e lo faceva piuttosto sguaiatamente.
Forse stava perdendo i propri freni inibitori. Improvvisamente, senza quasi me ne rendessi conto, la sua mano scivolò sulla mia coscia, lasciata scoperta da un paio di pantaloncini corti, da mare.
Non vi dico il mio imbarazzo davanti ad una situazione del genere: era la prima volta che mi succedeva e presi a pensare che se avessi dato retta a mamma questo non sarebbe accaduto.
Non sarei uscito con Max e sarebbe stato mille volte meglio.
Le sue carezze cominciavano a farsi sempre più insistenti ed io avevo paura: ero solo con lui, in quel luogo isolato e come se non bastasse, c’era pure di mezzo l’effetto della marijuana.
Cosa avrei dovuto fare? Mettermi ad urlare? Inutile, nessuno mi avrebbe sentito.
Cercai di raccogliere tutto il mio sangue freddo ed afferrai dolcemente la sua mano:
«Questo gioco non mi piace, Max, andiamocene ti prego.»
Lui capì e si ritrasse:
«Sei un bambino. Lo sapevo che con te era tempo sprecato. Aspettiamo che spiova e poi rientriamo.»
Aveva smesso di ridere ed era diventato di colpo triste.
«Vedi, forse tu non puoi capire, ma io sono abituato ad avere tutto. Qualsiasi cosa desidero basta che la chieda a mio padre.»
«I tuoi sanno che fumi?», gli chiesi.
«No, e probabilmente smetterò, per non arrecargli dolore», rispose.
«E le donne? Chissà quante ne avrai avute», continuai.
«Parecchie. Non c’è ragazza che non cada ai miei piedi: potere del denaro!»
Si passò velocemente una mano fra i capelli, poi aggiunse:
«Non so cosa mi sia successo con te, è la prima volta. Ti chiedo scusa.»
Una lacrima scivolò furtiva sulla sua guancia e lui tentò di nasconderla, girando il capo.
Lo abbracciai, senza esitazione.
L’amicizia con Max lasciò un segno indelebile dentro di me e mi aiutò a crescere. Imparai che la vita è fatta anche di esperienze non necessariamente belle, ma ugualmente degne di essere vissute.
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