Dedicato a te

di

Antonia Casagrande


Antonia Casagrande - Dedicato a te
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 130 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6037-9214

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In copertina fotografia di Vincenzo Varisco


Prefazione

L’interessante raccolta “Dedicato a te” di Antonia Casagrande, che comprende brevi racconti eterogenei, diventa la sostanza stessa di una ricca e complessa visione indagatrice della vita, cogliendone le evidenze primarie, le sfumature più lievi, le intense emozioni, le contraddittorietà e le fragilità dell’umano sentire e del concreto vivere.
Nella ricchezza di questa galleria di personaggi che vengono utilizzati come simboliche figure per esprimere una condizione esistenziale dell’Uomo, si esprime in modo dirompente la forza narrativa di Antonia Casagrande, unitamente ad un’abilità di rappresentazione sempre efficace e lineare nel presentare frammenti di vita, spaccati del mondo interiore dei vari protagonisti dei racconti.
Ecco allora che si può ravvisare la creazione di personaggi “esemplari” che nascono da uno sguardo attento alle multiformi esperienze esistenziali dell’essere umano. Sono figure narrative intense, profondamente rappresentate e pervase da un alone di unicità, cariche di una capacità introspettiva: osservano la realtà, la indagano, vivono le varie fasi degli eventi con cui devono fare i conti o rapportarsi, tentano di decodificare i segreti celati nel loro intimo: offrono, in ultima analisi, una visione acuta e l’estrema consapevolezza di ciò che merita di essere salvato.
Antonia Casagrande scandaglia ripetutamente il mondo personale dei protagonisti di questi racconti e la sua mano, precisa, sobria e limpida, ne esalta l’umanità, ne alimenta la dimensione più alta, riuscendo ad illuminare il filo conduttore che lega un racconto ad un altro e, al contempo, a riportarne le evoluzioni, le metamorfosi e le contraddizioni.
In questo costante processo di avvicinamento e compenetrazione, ecco allora dispiegarsi la vicenda di un figlio che “sbaglia”, che si sta “perdendo” davanti alla vita e poi cerca di redimersi grazie all’amore della madre che assurge a figura salvifica; la figura di Nerina, che dietro la sua bancarella di frutta, durante il mercato, urla come una venditrice d’altri tempi, ma porta con sé una dolcezza immensa e l’amore profondo di una madre per il figlio che il destino le strapperà dal cuore procurandole un dolore terribile e straziante, la storia di un ragazzo che si ammala di broncopolmonite, ma un coscienzioso medico lo curerà e seguirà con affetto, salvo poi, a distanza di molti anni, essere proprio quel ragazzo così malato, ormai diventato un medico anche lui, a curare con profonda riconoscenza e amore, il vecchio dottore che era stato così bravo con lui ed era riuscito a permettergli di coronare il sogno della sua vita; e ancora, il racconto che propone la figura di un uomo cieco dalla nascita, che trova l’affetto e la dedizione totale in una cagnolina labrador nera che si chiama Chiara; e ancora, la storia pervasa da profonda umanità che vede un uomo decidere di fare un breve giro in motocicletta, vicino alla città, in un posto chiamato in modo scherzoso “la spiaggia dei poveri” e poi, inaspettatamente, ecco l’incontro con una donna che ha perso l’uso delle gambe e il protagonista la invita a salire sulla sua moto, regalandole un momento di felicità e forse non solo quello.
E questi non sono altro che alcuni brevi cenni su racconti che sono da evidenziarsi, ma estrapolati da un più ampio ventaglio di storie, raccontate con passione e mano sapiente.
Antonia Casagrande, in questi racconti-frammenti di vita, esplora il rapporto con la realtà e la riscoperta delle piccole verità del vivere quotidiano, della necessità fondamentale di comprendere il significato autentico del “valore dei sentimenti”: le riflessioni interne sull’amore, sul senso della perdita, sulle difficoltà e sofferenze della vita, sull’evoluzione di “ciò che siamo”, rappresentano la continua ricerca entro la quale si dipana la vita stessa.
In un ampliamento continuo di questa multiforme visione narrativa che sa “vedere”oltre la realtà, che getta il cuore al di là delle apparenze, v’è tutta la ricognizione corale che elabora ciò che impreziosisce la vita, arricchendola d’una scrittura genuina e limpida, appassionata e penetrante, quasi offrendo spazio ulteriore ad una interrogazione sotterranea sul senso profondo della vita e sulla sostanza invisibile dei sentimenti, resi luminosi e innalzati ad una dimensione più elevata, grazie alla forza dirompente e all’energia vitale della parola di Antonia Casagrande.

Massimo Barile


Dedicato a te


ADDIO PER SEMPRE, CESARE

Quella mattina brumosa, mentre scendevo all’edicola sotto casa, ti ho incontrato e avvicinato per un istante, un solo attimo per salutarti: tu mi hai fatto un cenno con il capo, poi ti sei ritratto ed hai proseguito per la tua strada, ricurvo sotto il peso dei tuoi giovani anni bruciati. Chi non ti conosceva in città? Bastava pronunciare quel tuo nome altisonante che chiunque avrebbe detto: «Cesare? Sì, l’ho appena visto laggiù, era diretto verso quella direzione…»
Nonostante la città non fosse poi tanto piccola, tu la rigiravi in continuazione e ne conoscevi tutti gli angoli, ma in particolare eri un frequentatore dei bar e delle osterie, dove nessuno osava negarti un goccio di vino. Quando eri brillo intonavi le note di qualche canzone patriottica e la tua voce forte si espandeva per i vicoli intorno: sembrava di sentire un tenore, tanto eri bravo. Avresti potuto avere anche il calore della famiglia: eri pieno di parenti che sarebbero stati felici di ospitarti in casa loro, ma da te ricevevano solo un netto rifiuto.
Così passavi le tue intere giornate a bighellonare, alzando ogni tanto lo sguardo da terra per vedere dov’eri diretto. Per mangiare ti arrangiavi alla mensa dei poveri dove tutti ti amavano e te lo dimostravano con una spallata od un abbraccio.
Quel pomeriggio freddo, rannicchiato in quell’angolo pulcioso, venisti svegliato dalle sirene dell’ambulanza chiamata da due turisti preoccupati per il tuo stato. Gli infermieri che ti conoscevano molto bene tentarono di issarti sulla lettiga, ma tu non ne volevi proprio sapere: «Mi passerà, devo solo smaltire la sbornia, andatevene per favore!»
Che altro rimaneva loro da fare se non obbedire ai tuoi ordini? Nel giro di qualche ora te ne tornavi a spaziare per tutte le vie della città. Eri sempre vestito da straccione, anche se gli abiti belli non ti mancavano: stavano tutti in parrocchia, ad aspettare che tu ti decidessi ad andarli a prendere. Invece no, non li volevi proprio accettare; ti vantavi di non essere un consumista, senza considerare che anche l’aspetto esteriore può incidere sulla valutazione di chi ti sta di fronte.
Agli altri ti presentavi quindi piuttosto male: i genitori dei bambini che ti avvicinavano cercavano di staccarli da te: «Non vedi com’è sporco? Lascialo perdere, potresti infettarti!» I piccoli se ne andavano a malincuore, dopo averti regalato il calore di un sorriso. Tu avresti voluto spiegare che ti lavavi regolarmente a casa di una signora pietosa, ma le parole, rotte dall’alcool, non ti uscivano dalla bocca.
Ti vedevo spesso frugare di nascosto nei cassonetti della carta, quasi ci lasciavi la testa dentro tanto ti sporgevi, e poi uscivi con lo sguardo felice, come chi ha trovato finalmente quello che cercava. Ti accontentavi di poco, ti appassionavano i fumetti per bambini, di cui facevi incetta. Poi li leggevi seduto su una panchina del parco o sulle sedie all’aperto dei bar chiusi. Ti sfuggivano sorrisi tra le labbra e facevi tanta tenerezza. In quei pochi istanti in cui mi capitava di vedere bene il tuo volto, mi accorgevo che esso trasudava di bontà e di calore umano.
Spesso i bambini ti portavano da leggere ciò che ti piaceva, ma tu caparbiamente mostravi quello che avevi raccolto e facevi un cenno di no con la testa.
Quelli che non ti conoscevano ti scambiavano per un mendicante e si avvicinavano a te con un obolo fra le mani, ma tu li respingevi con discrezione e con una mano mostravi la bottiglia vuota, mentre con l’altra indicavi il bar più vicino. Ti facevi capire, eccome! Mentre ti accompagnavano al bar tentavano di scambiare due chiacchiere con te, ma poi si rendevano conto che avevano un muro davanti.
La tua splendida voce la utilizzavi solo per cantare. Entravi nel locale con la bottiglia in mano ed il proprietario te la riempiva con l’aggiunta di acqua per imbrogliarti. Con il tuo carattere non volevi dipendere proprio da nessuno e non desideravi neppure la compagnia di chi viveva emarginato come te. I clochard di solito si riunivano nel parco adiacente la stazione a scambiarsi quattro chiacchiere e l’immancabile cartoccio di vino, ma non ti si vedeva mai in mezzo a loro. Camminavi sempre solo a capo chino, sbronzo già di mattina.
Ultimamente mi sei sembrato più magro e più curvo del solito, la vita sregolata che conducevi ti stava distruggendo: non ti sentivo più cantare e le tue armonie mi mancavano da morire.
Ieri mattina ti ho incontrato, intonavi quella vecchia canzone con tutto il fiato che avevi in petto, come da tanto non succedeva. La notte seguente ho sognato la voce melodiosa di un cigno morente ed ho avuto un triste presagio. Non m’importava che si trattasse di una leggenda, mi vestii velocemente e cominciai a vagabondare per la città ancora deserta finché ti trovai rannicchiato in quell’angolo che spesso frequentavi come giaciglio, mentre un tale, presumo un medico, auscultava il tuo giovane cuore. Si rivolse verso di me facendo cenno di no con la testa.
Scoppiai in un pianto dirotto e dentro di me pensai: «Povero Cesare, chissà! Forse, dopo una vita di solitudine, sei finalmente approdato alla tua isola tanto agognata, dove c’è uno spazio dignitoso per tutti, anche per i diversi come te.»


AMATA PALLA MIA

Fin dall’infanzia ho sempre avuto un buon rapporto con le palle: ricordo che nella mia stanza pendevano dal soffitto, luminose, e si fermavano sopra il mio letto. Mi divertivo come un matto a guardarle muoversi e sfiorarsi, in quello scintillio di luci colorate. Avrei voluto toccarle, magari solo sfiorarle con un dito, ma mamma mi raccomandava di non farlo, che sarebbe stato un gioco pericoloso.
Ero abbastanza grande per capire e così mi accontentavo di seguirle con lo sguardo e di abbracciarle tutte virtualmente. Poi crebbi e passai sempre più tempo all’aperto, nel giardino di casa. In quel periodo amavo collezionare biglie di vetro, di tutti i colori e le dimensioni. Ne avevo a sacchi, nel magazzino di papà. Fu allora che ti conobbi: eri un po’ più grande di me, ma dimostravi meno della tua età, con quel viso da bambino sopra un corpo cresciuto troppo in fretta.
Ti chiamavano tutti “Ronnie”, in onore del fuoriclasse brasiliano, per la tua innata passione per il pallone. Al campo da gioco dell’oratorio, dove ti scatenavi per interi pomeriggi, non c’era ragazzo che ti tenesse testa: vincevi sempre tu e, quelle rare volte che perdevi, ti consolavi coi videogames, al rientro a casa. Non mollavi e passavi l’intera serata davanti allo schermo del computer: era un modo come un altro per rifarti della sconfitta subita.
Quel tiepido giorno di maggio, a primavera inoltrata, ricorreva il quattordicesimo anniversario della tua nascita.
Avevo risparmiato un bel gruzzolo di quattrini, solo per te. Volevo farti un regalo degno di un campione.
Girai molti negozi accompagnato da mamma, senza trovare nulla che ti fosse congeniale. Ero stanco e disperato, finché, come d’incanto, posai gli occhi su un enorme pallone blu e capii che era quello che faceva per te. Lo comperai senza esitare, anche se costava molto e sarei rimasto senza un soldo in tasca. Non me ne importava più di tanto, l’essenziale era farti felice.
Alla festa di compleanno ci ritrovammo in molti, fra compagni di gioco e di classe: eri amato da tutti per la tua genuina spontaneità e la tua straordinaria bontà.
Il tuo sorriso aperto e la tua voglia di vivere incantava chiunque ti avvicinasse anche solo per un istante. Sapevi ammaliare con quello sguardo ingenuo che affascinava molte tue coetanee. Avevi un sacco di ammiratrici, fin troppe per la tua giovane età.
Quando venne il momento dei regali la palla mi scivolò di mano e prese a correre per la stanza; neanche a dirlo si fermò vicino a te e tu l’afferrasti con orgoglio, l’abbracciasti e la baciasti con passione. Poi, passato il primo attimo di entusiasmo, mi venisti incontro e ti stringesti a me in segno di ringraziamento, mentre una lacrima tradiva tutta la tua emozione.
Da quel giorno cambiarono molte cose: cominciasti a prendere sul serio il gioco del calcio e ad allenarti in continuazione.
A volte tralasciavi i compiti per andare allo stadio che avevano appena costruito in periferia e quando rientravi, alla sera, non trovavi né il tempo né la voglia di impegnarti nello studio.
Fu un periodo duro per te, quello. Mancava poco agli esami, ma tu eri tutto preso dal pallone, tanto da rischiare la bocciatura.
Non avevi mai brillato particolarmente nello studio, ma finora te l’eri sempre cavata senza troppi problemi.
A volte mi sentivo in colpa per averti fatto quel regalo, così, per rimediare, volli tentare di darti un aiuto nelle materie che più ti erano ostiche: ci trovavamo a casa mia, quelle due o tre ore nel pomeriggio, a ripetere l’inglese e la matematica.
Con un po’ di sacrificio da parte di entrambi arrivò la tanto agognata promozione. Finalmente liberi per tutta l’estate!
Di corsa al campo da gioco, poi allo stadio, poi di nuovo al campo…la partita sembrava non finire mai.
L’appuntamento assolutamente da non perdere era per la seconda domenica di luglio, quando avresti giocato, come attaccante, contro gli atleti della squadra rivale, venuti dal paese vicino.
Arrivò quel 15 luglio, assolato e spietato.
Dagli spalti echeggiava il tuo nome ed i fragorosi applausi ti incitavano a dare il meglio di te, a correre e a calciare la palla con tutta la forza e la vitalità che avevi in corpo.
Poi, d’improvviso, il meccanismo s’inceppò, scivolasti a terra senza quasi rendertene conto, sbattendo la testa contro il palo della porta. L’urto fu violento e ti accasciasti a terra senza un lamento. L’ambulanza arrivò a sirene spiegate e si allontanò con te a bordo, dopo averti prestato i primi soccorsi.
Inutile dire che, nel giro di qualche ora, fuori del reparto di rianimazione in cui eri ricoverato, si accalcò un’incredibile folla di giovani e meno giovani, tutti a chiedere di te, di poterti vedere, di sapere almeno qualcosa sul tuo stato di salute.
I medici parlavano di trauma cranico con emorragia cerebrale, niente di tranquillizzante insomma, e ci invitarono tutti ad andarcene. La mattina successiva la situazione si andò aggravando ed io assistevo impotente alla disperazione dei tuoi genitori. Da quel momento presi ad odiare tutte le palle e mi sentii responsabile di quanto ti era accaduto: forse se non ti avessi fatto quel regalo tu adesso saresti ancora assieme a me, magari a giocare a flipper, che ti avrebbe fatto meno male.
Per tutta la giornata camminai su e giù per il corridoio, mangiando frettolosamente un panino, poi, sul tardi, uscii a prendere una boccata d’aria. Era una serata splendida, con un cielo trapunto di stelle ed una meravigliosa luna piena: una palla perfetta e luminosa. Benché diffidente verso tutto quello che appariva rotondo, non potei fare a meno di essere attratto dalla sua bellezza e dal suo alone di mistero, che metteva quasi paura. La fissai a lungo, affascinato, e le parlai di te, implorandola di farti guarire. Lei si chinò su di me ad ascoltare la mia preghiera disperata.
E fu allora che, inaspettato, accadde il miracolo: sentii giungere fino a me le urla di gioia di tua madre e capii che eri uscito dal coma.
Corsi nella tua stanza e ti vidi socchiudere gli occhi ed accennare un sorriso di sollievo.
Finalmente potevo tornare a casa tranquillo. Quando arrivai la tivù stava trasmettendo la semifinale di beach volley: ancora palle!

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