Opere di

Annalisa Cecere

Con questo racconto è risultata 5^ classificata ex aequo – Sezione narrativa alla V edizione Premio di Scrittura creativa Lella Razza 2009


Il silenzio

Frenò e spense il motore. Prese i 
due sacchetti della spesa ed entrò in casa. Si sentiva particolarmente stanca e senza neanche togliersi le scarpe, sprofondò sulla poltrona in salotto. Fece un grosso sospiro, chiuse gli occhi e trovò una posizione comoda per la schiena. Doveva sistemare i cibi freschi nel frigo e le due confezioni di merluzzo, che erano in offerta, nel congelatore…ma il tragitto che la separava dalla cucina le sembrò esageratamente lungo. Il silenzio della sua adorata campagna, le grandi e verdi distese che separavano casa sua dal trambusto metropolitano, conciliavano armoniosamente quel ristoro. La giornata era trascorsa faticosa tra un paio di giri per gli uffici, la visita a sua madre corredata dalle solite discussioni e la spesa al supermercato affollato in città. Fu tentata di stendere un braccio e prendere il telecomando per guardare un po’ di tivù ma pensò che ne avrebbe sicuramente maltollerato le immagini e i suoni. Aprì gli occhi e fissò a lungo, di fronte a sé, l’immagine nitida oltre la finestra del sentiero sterrato che conduceva a casa sua. Il sentiero da dove era arrivata, felice, tre anni prima; il sentiero da dove era arrivato Attilio qualche tempo dopo; il sentiero dove aveva passeggiato tante volte, da sola o con lui, dove avevano piantato il limone e il pesco…si erano detti che con i frutti del primo ne avrebbero fatto un liquore e i fiori del secondo lei, li avrebbe stretti tra le mani fino all’altare. Oltre il sentiero stava tramontando il sole, Spago abbaiava insistentemente, a Sonia scendeva qualche lacrima. Si alzò con fatica, lentamente si diresse in giardino e con il tubo riempì il ciotolone di Spago, faceva molto caldo e l’acqua evaporava facilmente. Si poggiò al trave del portico e si guardò intorno, respirò il profumo della siepe da potare e carezzò i peli arruffati del cane che beveva velocemente. Le tornò in mente il giorno che lo incontrarono durante una passeggiata oltre la collina che cercava di catturare le farfalle; era piccolo e spettinato, era solo. Decisero di tenerlo perché era simpatico e avrebbe fatto la guardia durante il giorno, mentre loro erano al lavoro…ora a Sonia, faceva anche compagnia. Rientrò, andò in bagno e tolse le scarpe, si specchiò e raccolse i ricci scuri in un elastico colorato; si sciacquò il viso salato e fissò i suoi occhi scuri, lo faceva spesso perché pensava di cercarci e trovarci la forza e il coraggio che le necessitavano e che dipiù, le sarebbero necessitati. Sentì una fitta acuta e si sedette sul bordo della vasca, restò immobile per qualche istante e quando si rialzò, si ricordò dei cibi acquistati da mettere in frigo. Il merluzzo si era quasi scongelato e decise di cucinarlo e che avrebbe invitato a cena Giusi. Chissà se quella era una delle tre sere in cui Giusi andava in palestra, chissà se già aveva un appuntamento con Mauro, chissà se doveva tingere i capelli o farsi la manicure. Andò a telefonare, ma dalla cornetta nessun segnale; Attilio diceva che la motivazione per cui il telefono, spesso, si isolava era che c’erano un sacco di topini sotto ed intorno alla loro, ora solo sua, casa che rosicchiavano tutto ciò che trovavano alla loro portata…a volte si trattava dei fili del telefono, altre volte dell’antenna del televisore, altre ancora dei corrugati della corrente. Solo che, in questi casi, era Attilio che cercava il punto rosicchiato, e lo riparava…lei, non sapeva dove mettere le mani. Rinunciò all’invito. Mentre tornava in cucina un’altra fitta la costrinse a sedersi sul divano, poi si distese e si girò su un fianco aspettando che il dolore passasse. Accese la tivù, seguì per qualche minuto il telegiornale che era appena iniziato e si addormentò. Si svegliò che era passata quasi un’ora, sentiva lo stomaco che reclamava di essere riempito e tornò al suo merluzzo ormai completamente scongelato. Si chinò per prendere la padella nello sportello sotto l’acquaio e di nuovo la fitta che stavolta però, era più violenta delle altre. Si trascinò a fatica nel salotto e si sdraiò di nuovo sul divano. Passarono un po’ di minuti e sentiva che le sue forze venivano meno. Sempre faticosamente tornò al telefono con la speranza che desse segnali di vita…non ne dava ancora. Avrebbe chiamato Giusi e non più per invitarla a cena, poi, avrebbe provato a chiamare sua madre, sicuramente polemica sì, ma pur sempre sua madre… e alle strette, avrebbe chiamato un’ambulanza, forse sì, le sarebbe sembrato proprio il caso. Ma il telefono non fungeva e si convinse che doveva cavarsela da sola. Tornò in bagno a recuperare le scarpe che, non appena infilate sentì scomode e optò per un paio di infradito fucsia… aveva deciso di non metterle mai più quelle… erano un regalo di Attilio di un anno prima… Si guardò allo specchio e sciolse i capelli che sentì fastidiosi sulle spalle e li raccolse di nuovo; fissò i suoi occhi scuri… ci vedeva paura ma si impegnò a scovarci almeno un po’ di quel coraggio…Prese la borsa e le chiavi ed uscì, si chiuse la porta alle spalle e trovò poco più il là Spago che destato dai rumori, s’era alzato seguendola fino all’auto. Avviò il motore e cominciò a sudare, le sue gambe tremavano e tornò il dolore, forte, disarmante, sdraiò lo schienale e appena stesa gridò, cercando di liberarsi da quella sofferenza e dalla paura. Non aveva ancora accesi i fari e con il chiarore della luna riusciva a scorgere soltanto le zampe di Spago stampate sul finestrino e a sentire il suo chiaro mugolio. Pensò che doveva raccogliere tutte le forze e partire, andare. Si avviò, e prima di oltrepassare il dosso, guardò nello specchietto retrovisore il sentiero sterrato…il sentiero degli arrivi, delle partenze, dell’inizio, della fine… frenò, poggiò le braccia e la testa sul volante e chiuse gli occhi, non trattenne più le lacrime; poi fece un grosso respiro e ripartì. La sua mente ora, era attanagliata da una serie di pensieri, alcuni nitidi, altri confusi; ripassò tutti i momenti di sconforto e tristezza che si erano susseguiti negli ultimi mesi e chiara e viva sentiva la forza che l’aveva sostentata sempre; di Attilio erano scoloriti alcuni tratti, alcune sue parole, forse inconsciamente rimosse… decise che era giunto il momento di non pensarci proprio più. Era a metà strada e si fermò, cercò di recuperare il respiro che le sembrava sottratto da un’altra violenta fitta. Ad un paio di chilometri avrebbe incrociato la via di casa di sua mamma…ma immaginò che in quel repertorio di frasi, non ce ne poteva essere nemmeno una che, quella sera, potesse esserle di conforto o supporto; oltrepassò l’incrocio senza titubanze. La strada era libera ma Sonia sentiva di non riuscire più a mantenere l’attenzione necessaria alla guida. Sudava sempre dipiù e rallentò; si chinò e raccolse sul tappetino una piccola bottiglia di acqua che bevve d’un fiato anche se sgradevolmente calda. Percorse pochi metri e sentì nello stomaco una forte pressione, sembrava che volesse esplodere, sembrava che ci fosse dentro qualcosa di grosso e pesante; fece in tempo, per poco, a fermarsi e ad aprire la portiera, vomitando sull’asfalto deserto in più riprese. Estrasse dal cruscotto i fazzoletti di carta con cui si asciugò la fronte, la bocca e le mani; crollò in ormai deboli singhiozzi di pianto interrotti da grida soffocate di dolore. Si sentì persa, non passava nessuno a cui chiedere aiuto e per un attimo, maledì il giorno… quel giorno in cui schiacciò sotto un masso il suo cellulare che riusciva a fissare per ore, ma che non squillava mai, non squillava più. Accese la lucina sopra lo specchietto e si guardò: fissò i suoi occhi scuri, ci vide la stanchezza e lo sfinimento ma si ostinò a trovarci la grinta, il coraggio… anche se poco, almeno quello rimasto… Chiuse la portiera e si avviò, piano piano, per un paio di chilometri ancora. Da lontano intravide l’insegna luminosa, accennò un sorriso. Seguì le indicazioni e, appena fuori dalla grossa vetrata frenò e si attaccò al clacson. Lasciò andare la testa indietro, era stremata, non riuscì neppure a scendere dall’auto. Arrivò qualcuno e si occupò di lei. Erano le tre e quarantacinque di notte e nacque Elio. Sonia il giorno successivo aveva letto sul libro della sua compagna di stanza: Elio, dal greco elios “sole”.


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