Opere di

Angelo Tecchi


Con questo racconto è risultato 5° classificato – Sezione narrativa alla XVI Edizione del Concorso Città di Melegnano 2011


Questa la motivazione della Giuria: «Elegante, sofisticato, cinico e garbatamente misogino, questo racconto si svolge in una Venezia algida e culturale, durante una gita artistica. Il protagonista, vedovo ma non inconsolabile, accondiscende alla vita con un ennuì e uno spleen degni di un dandy alla Oscar Wilde. I suoi pensieri sono caustici, la sua accettazione della meschinità femminile è arresa e semplicemente spettatrice delle astuzie ipocrite e della bieca mediocrità dell’essere umano. Non a caso, scopo della gita è una mostra del pittore Balthus, sconsideratamente trasgressivo, raffinato, detentore di un linguaggio pittorico oscuramente erotico, pittore che ha scandalizzato il novecento, vivendo vestito da monaco zen in un castello con centotredici finestre e una moglie giapponese adolescente, artista che ha sempre ritratto la sessualità precoce con una lucidità definita morbosa dai critici più bacchettoni. Il protagonista vivrà un’avventura sessuale occasionale con una donna calcolatrice, astuta e avida, una vera e propria “vedova nera”.
Persino la morte è ridicola, in questo racconto così asciutto e spietatamente realista. La passione è esclusa: non resta che vivere l’eleganza e lo stile come ultima spiaggia».

Alessandra Crabbia


Balthus a Venezia

La gran massa di finissimi capelli, che biancheggiavano al sole come un’insolente aureola, mi ostruiva la visuale dello schermo televisivo. Ma non era questo ad infastidirmi, considerato che non seguivo il film. Mi ero rannicchiato sulla stretta poltrona del pullman con un libro aperto fra le mani, ma non riuscivo a concentrarmi sulla lettura a causa del cupo vociare che incessantemente scaturiva dal passeggero antistante, proprietario della candida ed ingombrante capigliatura.
Era un rotolio cavernoso di frasi indecifrabili che l’uomo rivolgeva ad una signora piccolina seduta alla sua sinistra, di cui intravedevo solo una parte del profilo: il naso breve e diritto dalla narice delicatamente disegnata che si perdeva nel pelame ambrato di una pelliccia. La donna interloquiva raramente, con sussurri concilianti che però provocavano spesso ruggiti rabbiosi da parte del compagno. Ero capitato male. Mi alzai in piedi per cercare un posto più tranquillo ma le uniche poltrone vuote, in fondo al pullman, erano ingombre di soprabiti, sciarpe e cappelli.
Nell’atto di sedermi, rassegnato, incrociai lo sguardo della donna che si era girata all’indietro, richiamata dal mio movimento: accennò un sorriso timido, consapevole. Poi interruppe bruscamente il cupo parlottio dell’uomo che voltò il capo a guardarmi: occhi aggrondati dietro lenti spesse fra le pieghe molli di un viso brutalmente disfatto dagli anni. Sull’ottantina valutai, mentre la donna, ancora piacente, poteva dimostrarne fra i quarantacinque e i cinquanta. Forse meno.
Il rotolio incombente ed iroso si arrestò per qualche minuto e poi riprese su una tonalità più bassa.
Il pullman arrivò a Piazzale Roma nel tardo pomeriggio. Di qui, come da programma, ci imbarcammo sul vaporetto che, seguendo le liquide spire del Canal Grande, ci scaricò in Piazza San Marco.
Era una fredda e umida serata invernale ma la piazza, pur nello squallore trascurato dell’ora, affascinava sempre come una bella donna in vestaglia e priva del trucco.
Nei pressi, imbucammo nel nostro albergo, un tre stelle dalle moquettes consunte e dai velluti spenti. La gita prevedeva la cena e la serata libera. Poi il giorno successivo, domenica, visita guidata alla mostra retrospettiva a Palazzo Grassi dedicata a Balthus. Pranzo, pomeriggio libero, cena, secondo pernottamento e infine, dopo la colazione del lunedì, ritorno a casa.
Io non avrei mai pensato di unirmi al gruppo dei gitanti invernali: non apprezzo i piaceri collettivi, soprattutto se goduti in compagnia di perfetti sconosciuti. Ma mia figlia aveva pensato di offrirmi la gita come regalo di compleanno: «Balthus a Venezia, t’immagini? Sono convinta che ne sarai entusiasta!» cosicché avevo dovuto mostrare un’adeguata dose di entusiasmo.
Da quando sono rimasto vedovo, mia figlia si sente investita di grande responsabilità nei miei confronti. Una responsabilità che io non sono in grado di arginare.
A me piace stare da solo. Lei, invece, mi spinge verso la gente, mi vuole imbracato in qualche gruppo. Talvolta mi opprime.
Quando scesi per la cena era rimasto un solo tavolo libero nella sala da pranzo dell’albergo: era di fianco a quello occupato dai due signori che erano seduti davanti a me, sul pullman.
Il vecchio dalla capigliatura candida stava concionando con un cameriere e la sua voce fonda riempiva tutta la sala. Era comprensibile che il tavolo vicino a lui fosse stato evitato dagli altri commensali. Con un cenno di saluto mi sedetti. Solo la signora rispose al mio saluto mentre l’uomo, interrompendo per un momento la sua arringa, mi rivolse un’occhiata sospettosa.
«Questo “risi e bisi” è… è…» cercava l’aggettivo adatto «…è indecente!» tuonò infine.
La signora mormorò cauta: «Ci vuole pazienza, Lodovico!» e con gli occhi cercava il mio consenso.
«D’altronde» intervenni in suo appoggio «raramente le cucine degli alberghi sono ad alto livello. A Venezia, poi!»
Lei mi sorrise, grata. Un bel sorriso caldo, seducente.
Dopo cena, lei lo accompagnò in camera. Lui era malsicuro sulle gambe e si appoggiava sulle spalle della piccola compagna. Anche dall’interno dell’ascensore che saliva si diffondeva il malcontento cavernoso della sua voce.
Mentre sorseggiavo il caffè, godendomi una sigaretta, lei ritornò in sala. Si sedette al tavolo vicino al mio ed estrasse a sua volta una sigaretta dalla borsetta, nella quale continuò a frugare. Compresi che cercava del fuoco (o forse un pretesto); quindi mi accostai a lei con l’accendino acceso.
Così ci conoscemmo.
Si chiamava Stella, m’informò con un leggero battito di ciglia, ed il signore che stava con lei era suo marito, l’avvocato Lodovico Monteleoni, ora in pensione. Forse lo conoscevo, se non altro di fama, dato che abitavamo nella stessa città? Si certo, chi non aveva sentito parlare del famoso avvocato Monteleoni? (era il più famigerato gigione del foro locale!)
Lei, Stella, era stata segretaria nel suo studio una ventina d’anni prima, quando lui era vedovo con due figli grandi. Le aveva fatto una corte serrata: fasci di rose rosse, ristoranti di lusso, gioielli.
Poi le aveva chiesto di sposarlo. È vero che c’era una notevole differenza d’età fra loro (trentadue anni per la precisione!), ma bisognava averlo conosciuto allora con la sua personalità straripante, il suo capo leonino, la sua oratoria travolgente per capire come lei ne fosse rimasta infatuata. Era qualcuno allora, una persona importante, conosciuto ed ossequiato da tutti!
Se si era mai pentita? Oddio, non tutto era andato come lei si era aspettato, ma d’altra parte si sa, l’uomo propone e Dio dispone!
Sussurrava le sue confidenze punteggiandole con esclamativi, scoppiando in frequenti risate argentine e agitando le manine grassottelle che spesso toccavano le maniche della mia giacca, come per offrire intimità e ottenere attenzione.
Innanzitutto i figli del marito si erano rivoltati contro di lei come serpenti: l’avevano accusata di avidità, figuriamoci! Quante male parole! E tutto per niente, dato che Lodovico l’aveva sposata con il regime della separazione dei beni. Poi non aveva certamente largheggiato con lei, dopo il matrimonio, anzi! Una tale avarizia: appena il denaro per la spesa!
E la vita di società che lei aveva vagheggiato? Tutta da ridere (e giù una bella risata squillante). Alla sera Lodovico si intorpidiva davanti al televisore e finiva per addormentarsi, russando!
Non avevano avuto figli: lui non ne voleva altri. Quei due che aveva, diceva sempre, gli bastavano e avanzavano!
Che prepotente era, che vanesio, che egoista! Invecchiando poi era addirittura peggiorato! Sempre lì a brontolare, sempre a giudicare, sempre a lamentarsi col suo vocione insopportabile.
Aveva dovuto abbandonare la professione, lasciando lo studio legale ai figli, perché non ricordava più niente, perdeva le cause e perdeva i clienti.
Poi era stracolmo di malanni, quelli veri e quelli di fantasia. Avrei dovuto vedere quante medicine si erano portati in valigia! E lei gli doveva fare da infermiera di giorno e di notte!
«Beh» interloquii a difesa «non può rimproverarlo se sta male alla sua età: non può essere colpa sua!»
Oh no! Cosa avevo pensato! Non erano le malattie che gli rimproverava ma il suo rifiuto di assumere un’infermiera: con tutti i suoi soldi se la poteva ben permettere, senza problemi. Ma lui niente! Non voleva estranei attorno, diceva. Comodo, vero? Tanto c’era lei!
Gesticolando, ammiccando, toccando, gli occhi brillanti, gli improvvisi scoppi di risa argentine, si era ormai abbandonata al fiume in piena delle sue più intime confidenze a cui io non riuscivo a sottrarmi.
Nella sala, a qualche tavolo di distanza, i compagni di gita giocavano a carte oppure uscivano a passeggio o rientravano o comunque socializzavano fra loro, lasciando noi due isolati, apparentemente trasparenti ai loro sguardi, quali personaggi incorporei di una diversa dimensione.
Infine la sala si svuotò ed io osservai: «S’è fatto tardi».
Lei s’interruppe di colpo, come boccheggiando a vuoto, in silenzio, guardandosi intorno. Poi, portandosi una mano sul viso, mormorò: «Oddio!»
S’accomiatò molto formalmente, offrendomi la mano.
«L’ho molestata con i miei affanni!»
La rassicurai e l’accompagnai fino alla porta della sua camera.
Quando scesi il mattino successivo, erano già al solito loro tavolo. E il “solito” tavolo, accanto al loro, era libero per me. Come fa presto ad instaurarsi una consuetudine!
Lei mi salutò e graziosamente mi pregò di sedere con loro.
«Così, intanto che fa colazione, ci racconta qualcosa di questo Balthus!»
La sera precedente le avevo accennato al piacere che mi ripromettevo dalla mostra delle opere di questo maestro del novecento, isolato e misterioso.
Non potei esimermi. Mangiai, dissi qualcosa.
Monteleoni borbottava, poco convinto.
Arrivammo a Palazzo Grassi in vaporetto.
Sono abituato a frequentare da solo i musei o le mostre d’arte, in giorni di scarso afflusso, preferibilmente con un catalogo in mano. Mi piace esaminare ogni opera con agio, nel silenzio più profondo. Nella quiete.
Quel giorno fu diverso, dispersivo, chiassoso eppure coinvolgente.
La guida illustrava a voce alta, l’una dopo l’altra, le opere esposte nelle varie sale, con distacco professionale, fra i brusii, le esclamazioni, le risatine pruriginose della comitiva.
Fin dal primo quadro, Monteleoni aprì le ostilità: criticava, disapprovava, deplorava, si scandalizzava, brontolava anatemi.
Di fronte a “La lezione di chitarra”, in verità sconcertante per l’implicazione erotica che trasmette, tuonò: «Ma quest’uomo era un pedofilo!» a voce così alta che tutti ne risero.
Stella, dopo aver inutilmente cercato di placarlo, si allontanò dal marito come se volesse prendere le distanze dai suoi commenti per mostrare a tutti che non li condivideva, avvicinandosi a me.
L’opera di Balthus si nutre di turbamenti, di istanti sospesi, di segrete seduzioni e trasmette emozioni molto profonde, intime e ambigue.
Di ciò bisbigliavamo fra noi, Stella ed io.
Guardando “La camera”, in cui una ragazzina, sdraiata su un divano, viene risvegliata da una minacciosa fantesca che tira con forza le tende della stanza, illuminando così il corpo nudo e offerto della fanciulla, Stella chiese «Dorme o finge di dormire, la maliziosa?».
Risposi che forse era semisveglia e confusa dai torbidi misteri del suo corpo adolescente.
Lei mi prese sottobraccio. Il marito commentò «Porcherie!» lei sbuffò.
La colpì il quadro intitolato “I bei giorni”: la ragazzina con il petto a metà svelato e le gambe divaricate che civetta con lo specchio mentre un uomo a torso nudo è chino sul fuoco ardente d’un camino. La donna bambina vuole eccitare l’uomo: come finirà questo gioco sottile?
«È un’atmosfera che turba!» commentò Stella.
Infine giungemmo davanti ad un disegno a matita che rappresentava una modella nuda che offre all’artista la prospettiva della sua vulva glabra. Un disegno morbido, quasi tenero nella sua apparente impudicizia.
Monteleoni proruppe: «Osceno! Ai miei tempi questa si chiamava pornografia ed era vietata!»
Stella m’indirizzò un sorriso complice e contemporaneamente un suo seno lambì il mio gomito destro. Ne avvertii la compatta morbidezza.
All’uscita da Palazzo Grassi presi un vaporetto per Burano, abbandonando temporaneamente la comitiva. Avevo bisogno di stare un po’ da solo.
Stella mi salutò timidamente, agitando la manina.
Li rividi a cena quando, invitato, mi sedetti al loro tavolo.
Si parlò della mostra, naturalmente. Monteleoni rotolava cavernosamente la sua disapprovazione, mentre Stella gli imputava una totale incompetenza nelle cose d’arte.
«Sei più ignorante d’un caprone!»
Lui reagiva con furia, biascicava, cercava le parole che la memoria aveva perduto, gocciolava saliva. Cercai di calmarlo. Mentre le pieghe del suo collo tremolavano irosamente, mi fissò con antipatia.
Finita la cena, lei mi sussurrò: «Lo accompagno a letto e poi ritorno. Mi aspetta?» annuii.
Nel dirigersi verso l’ascensore Monteleoni appariva esausto.
Quando Stella ritornò, più tardi, proposi una passeggiata.
«Pioviggina, ma possiamo farci prestare un ombrello» ne fu entusiasta.
Il bacino di San Marco era avvolto in una cortina d’umida foschia. C’era poca gente in giro. Prendemmo per la Riva degli Schiavoni, protetti dall’ombrello che ci isolava dagli altri.
Stella, che si era incollata al mio braccio destro, mi rivolgeva domande su di me: dov’ero stato quel pomeriggio, se avevo un’amica a Burano, se davvero vivevo da solo come le avevo raccontato.
«Su avanti, si confidi con me!»
Avevamo girato per Campo S. Zaccaria e, per sottrarmi alle sue domande insistenti, le mostrai la facciata rinascimentale della Chiesa di San Zaccaria e le parlai delle opere d’arte che ospita: Bellini, Tintoretto, Andrea del Castagno.
Ma Stella, superata la pausa di doverosa attenzione, si ostinava nella sua indagine: dopo la morte di mia moglie… niente? Possibile? Non ci credeva!
Eppoi: cosa pensavo di lei? Forse era stata un po’ troppo leggera nel lasciare solo il marito in albergo per uscire con me che, dopotutto, lei mica conosceva.
Era vero che pensavo male di lei?
Proseguendo in direzione dell’Arsenale, eravamo giunti di fronte alla Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni. Le parlai dei dipinti del Carpaccio accolti nella sala a pianterreno.
Apprezzò per un istante ma non si lasciò deviare.
Perché ero così elusivo? Lei era stata talmente sincera con me! Cosa pensavo veramente di lei?
Si era fermata sotto l’ombrello, dando le spalle ad un androne scuro oltre il quale s’intravedeva appena la vegetazione di un piccolo giardino. Aveva il capo levato verso di me, le labbra piene protese nella domanda, un luccichio negli occhi bui. Tutto intorno era silenzio. Non c’era nessuno.
Lasciai cadere l’ombrello sul selciato. L’abbracciai e la spinsi nell’androne, contro una parete. La baciai voracemente, sulla bocca e sul collo, mentre le mie mani la frugavano. Lei rispondeva: mi mordicchiava i lobi delle orecchie, si strusciava contro il mio turgore. Le aprii la pelliccia, le alzai la gonna del tailleur. Lei mi assecondava.
Come animali infoiati, dimentichi del luogo e di ogni altra cosa che non fosse la soddisfazione di una voglia che urgeva ormai da tempo, da troppo tempo per me, da troppo tempo per lei.
Frenetici ed ansimanti, ci prendemmo così, in piedi, come ragazzini in cui infuriano ormoni impazziti.
Dopo tornò il silenzio.
Ci ricomponemmo. Mi sentivo debole e svuotato, mi tremavano le gambe.
Lei si appoggiava ancora alla parete, una mano sugli occhi.
«Cosa abbiamo fatto, alla nostra età!»
Le accarezzai il viso.
«Evidentemente l’età è ancora quella giusta!»
«Se ci avessero visti!»
«Tranquillizzati, non c’è nessuno».
Recuperai l’ombrello. Era tardi, dovevamo tornare in albergo.
Per tutto il percorso camminammo stretti l’uno all’altra. Soltanto avvicinandoci all’albergo ci distaccammo. Lei entrò per prima.
Quando entrai anch’io, un minuto dopo, vidi molte persone accalcate intorno a Stella, vocianti ed agitate.
Venni a sapere che, durante la nostra assenza, Monteleoni s’era sentito male, aveva suonato il campanello per chiamare il portiere di notte che aveva cercato di soccorrerlo ma, vista la gravità delle condizioni del malato e non potendo trovare la signora (occhiate di biasimo), d’accordo con la guida del gruppo si era convenuto di far trasportare Monteleoni in ospedale.
Stella, pallida, impietrita, si copriva la bocca con una mano, gli occhi sgranati.
Venne chiamato un motoscafo per accompagnare la signora in ospedale.
Non mi volle con sé.
Per metà della notte stetti sveglio ad aspettarla. Poi mi addormentai.
Il mattino successivo, quando partimmo dall’albergo con il vaporetto, Stella non era con noi.
Durante il viaggio in pullman, venimmo informati, tramite il cellulare della guida, che Monteleoni era morto.
Se sua moglie fosse stata in camera quando il marito s’era sentito male, avrebbe potuto aiutarlo tempestivamente a superare la crisi? Chissà?
Sentivo che i compagni di gita rimuginavano questo pensiero e probabilmente aggiungevano un commento: non si lascia da solo un uomo anziano, malato, per uscire di notte con un altro, per combinare chissà cosa!
Seppi poi che i figli si erano precipitati a Venezia. In seguito la salma fu trasportata nella nostra città dove si svolsero i funerali. C’era tanta gente! C’ero anch’io, confuso fra la folla.
Anche vista da lontano, Stella aveva il viso segnato dagli strapazzi di giorni difficili.
Le inviai un biglietto di condoglianze che rimase senza risposta.
Feci trascorrere una decina di giorni e quindi le telefonai. Mi rispose una voce femminile che parlava un italiano stentato: credo fosse la domestica.
Dopo una lunga attesa al telefono, ritornò a riferirmi che la signora non era in casa.
Non la cercai più e Stella non cercò me.
Qualche anno dopo la incontrai in un supermercato. Era elegante, profumata, sorridente, in compagnia di un signore alto, d’aspetto giovanile.
Quasi ci scontrammo nel corridoio incuneato fra due scaffalature: non potemmo evitare di salutarci. Con disinvoltura mi presentò il suo accompagnatore, l’ingegner Tal dei Tali. Soggiunse:
«Mio marito. Ci siamo sposati quasi un anno fa».
Mi congratulai.
Io venni presentato come compagno di una gita a Venezia, che era stato così bravo ad illustrarle i quadri di un pittore, come si chiamava? Balthus? Ah sì, una mostra interessante, vero?

Angelo Tecchi



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