Racconto premiato di Angela Ambrosini


Opera 10^ classificata al Premio Il Club dei Poeti 2007

«Memorie dal sottosuolo»

Il mio nome è Olga Braun. È l’unica cosa che ricordo. Non che presentarmi sia importante, ma pronunciare il mio nome mi fa sentire meno sola in questo buio assordante che mi brucia fino a dissolvere tutto di me, passato, presente, futuro, un futuro negato da una volontà cupa che mi sovrasta, che ci sovrasta. Avverto infatti migliaia di presenze invisibili, mute prede dello stesso destino. Qualcosa di ineluttabile ci è accaduto, qualcosa che ineluttabile avrebbe potuto non essere. La mia solitudine è condivisa da migliaia di altre solitudini, ma non capisco bene, non riesco a ricordare ora. Aiutatemi. Aiutatemi, vi prego a ricordare chi sono. – A ricordare chi eravamo – qualcuno (è proprio vero, non sono sola) sussurra un verbo semplice ed essenziale, “essere”, ma in tempo passato, la negazione stessa del suo significato. La negazione stessa dell’esistenza.
Il buio continua ad opprimermi, fino a fagocitarmi l’anima, un buio percorso da brividi mormorati insieme a brandelli di passato. Il futuro non mi appartiene.
Il futuro si è già compiuto. E’ del passato che ho paura. Ma non ricordo.
Il mio nome, anche il mio nome è un suono perduto nella memoria. Ma è tutto quello che ho, tutto quello che mi resta. Dio, dove sono? Dove sei? Perché ci hai abbandonati? Penso al plurale, non posso fare a meno di pensare al plurale. Ma dove sono gli altri? Dove siete? Perché questo fragore assordante di solitudini raggrumate, di una vita, la mia vita, raggrumata nel suono sordo di nove lettere: Olga Braun. Nove lettere a scandire un’identità. Nove lettere, il feretro di un’anima. Ecco, la lama del ricordo comincia ora ad affondare piano nella mente: Olga, nome balcanico, come quello di mia nonna. Braun perché in queste terre l’impero austro ungarico ha lasciato tracce anche nei cognomi. Tuttavia io sono italiana.
Mio padre parlava italiano, non solo sloveno. Io parlavo italiano, sto pensando in italiano. Noi parlavamo italiano.
“È per questo che sei finita qua sotto” una voce mi passa accanto “per l’odio insensato che ci hanno rovesciato addosso come olio bollente”. Niente ci è rimasto: non l’aria profumata di salsedine, non la luce verde del giorno in questo splendido lembo di terra. Qua sotto c‘è solo notte, c‘è solo fango. E questo crescente lamento di voci brulicanti di ricordi appannati dal tempo.
Eppure altre voci percepisco. Ma non so a chi appartengano, non so distinguere da dove provengono, sembra che provengano da sopra. Sopra da dove? Sì. Ricordo. Ma non ricordo il nome del bosco, soave luogo era dove passeggiavo con mia sorella, con i miei piccoli allievi a indicare il pericolo degli inghiottitoi, gole voraci a presagire veleni.
Ora di nuovo il bosco sembra meta piacevole di svago: grida festanti ci colano dritte al cuore come torrenti limacciosi e scalpiccii di passi schiacciano ignari il nostro diritto a ricevere quieta e degna sepoltura. Quindi fate silenzio, mio Dio! Tacete! Come potete non sapere di noi, del nostro limbo negato, del sottosuolo che formicola sotto i vostri piedi e pur tuttavia latita nei vostri libri di storia troppo immacolati per tollerare anche questo ignobile tatuaggio.
Ascoltate, vi dico! E sappiate di noi. E dal profondo di quest’orrida pace che da voi ci separa, vi chiedo: ridateci dignità storica, non seppelliteci anche di menzogne. Noi, che non abbiamo più un corpo da farvi tumulare, ma centinaia, migliaia di membra avvinghiate, ingoiate nel ventre putrido della storia, noi, cittadini d’una terra negata, noi che esilio non trovammo a una manciata di chilometri da questa silente tomba, noi che silentes loquimur nella nostra storia sepolta dal chiasso della vostra, noi vi gridiamo: ascoltate il nostro silenzio strozzato nel fango, ascoltate sotto i vostri passi affrettati il bisbiglio corale di chi non una ma due volte è stato ucciso dall’odio.
Ora ricordo, ricordo ogni momento che precedette la lenta agonia oscura che come acido ci avrebbe corrosi sotto quella passerella malferma, ipocrita barca sguaiata di Caronte con cui loro ci traghettarono all’inferno. Ora ricordo.
Ora so tutto. I polsi lacerati dal filo di ferro, mente e corpo sfiancati dalle torture, gli occhi atterriti sul precipizio.
Una spinta con il calcio del fucile e il carso mi avrebbe risucchiata per l’eternità ghermendomi anche l’anima. Un insulto digrignato in slavo, la stessa dolce lingua nella quale i vecchi gemevano le loro litanie, fu l’ultima parola che mi rivolsero. Per l’eternità. E per l’eternità udrò il brusio di questa cavità gremita d’anime. Anime che ancora aspettano un requiem. Ora ricordo. Ora so tutto. La guerra fu nulla in confronto.
Ascoltatemi, abbiate il coraggio di ascoltare la mia voce e mettete a tacere il frastuono del vostro mondo immemore.
Avevo vent’anni e il respiro mi si è spento a poco a poco, aspirato da questa melma avida di carne umana. Silenzio.
Per l’ultima volta: fate silenzio e sappiate di noi! E che ricordare sia fiele lento anche al vostro cuore. Ascoltatemi ho detto: il mio nome era Olga Braun!


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