Opere di

Andrea Ciresola

Con questo racconto è risultato 3° classificato – Sezione narrativa alla V edizione Premio di Scrittura creativa Lella Razza 2009


Tuo, sempre

Dato che le scatole in latta erano 
disposte in ordine sopra la ma
dia, dentro la vetrina e perfino sul tavolo tondo in mezzo alla sala, si sarebbe potuto pensare ad una collezione.
Non era così.
Quella disposizione era motivata dal contenuto delle latte.
Biscotti della Lazzeroni? Baìcoli veneziani? Tutt’altro!
Già durante la prima sera di permanenza in quella casa, assunta come badante dell’anziana proprietaria, ne conobbi il contenuto.
Nonna Antonia, come amava farsi chiamare, mi chiese di portarle la scatola blu.
«No , non quella! L’altra con il disegno di San Marco…».
«Preparo latte caldo?» chiesi pensando ai biscotti, ma lei mi guardò dritta negli occhi come poche volte mi era capitato nella vita. Occhi umidi i suoi, occhi di chi dentro vi ha nascosto ricordi impigliati nell’azzurro della cenere.
«Quanti anni ha Natasha?».
«Venticinque…» risposi.
«Si trovi un uomo che le scriva ogni giorno una lettera, una poesia, anche solo il biglietto della spesa…».
Figurati, pensai io, figurati se Ivan…
La donna aprì la scatola guardando in alto come se dovesse estrarre un numero della tombola e prese un foglietto che ripose fra la tazza per il latte e il piattino per la marmellata . Una carta a quadretti, piegata in quattro che tradiva la riga lilla del margine.
«Per la colazione» disse fra sé.
Si addormentò presto quella sera e così, con un gesto che non ripetei più, curiosai nelle scatole. Centinaia, forse migliaia di biglietti. Non li aprii per gustarmi la sorpresa di un racconto, una confessione, ma solo se la signora avrebbe voluto. Quel momento, se mai fosse arrivato, mi sarei sentita meno sola in quel mondo così lontano dal mio.
Ne passò di tempo, giorni interminabili e anni velocissimi come solo la clessidra della vita sa scandire.
Nonna Antonia faticava sempre più nelle sue faccende, l’incedere lento, la voce flebile, il dolce tremore della mano sul breviario dei salmi, tuttavia ogni sera preparava la colazione sulla candida tovaglia di fiandra. Ci teneva a farlo lei e mi chiedeva ora l’una ora l’altra scatola.
Io, in quella donna, ogni sera speravo di trovare la famiglia che avevo perduto nella notte del distacco e pensavo a quella frase …si trovi un uomo che le scriva ogni giorno una lettera… Ma come avrebbe potuto Ivan, dopo un giorno passato a scaricare sacchi di cemento, avere una mano così lieve per scrivere parole?
Figli, nonna Antonia, non ne aveva e se li aveva non ce n’era traccia, ma il suo sguardo di aurora tradiva storie indimenticabili come quelle dei film anni Cinquanta.
Finché una sera la vita mi regalò il mistero e la sua soluzione, ma non fu come immaginavo e la donna non rivelò quasi nulla della sua vita, del suo uomo, dei suoi amori.
Antonia, con il suo ritmo, preparò quella sera due tazze sulla tovaglia, una di fronte all’altra, e due piatti e due cucchiai.
«Come si chiama il suo compagno Natasha? Perché si dice così vero?» alludendo al compagno. Nel frattempo la guardavo comporre la colazione con la sapienza di un rito zen.
«Ivan» risposi.
Lei sorrise come chi la sapeva lunga, guardandomi ancora una volta negli occhi. Prese la scatola dorata.
Biglietto. Piegato in quattro. Riga lilla.
Sguardo alla finestra.
Sorriso.
Poi indicò la scatola blu, quella con San Marco, la sua preferita.
«Ne prenda uno per sé» disse.
I due fogli trovarono casa su due distinti piattini del servizio di Limoges che di solito si usava per le mattine di Natale e Pasqua. L’indomani era il 22 maggio dedicato a Santa Rita da Cascia, la santa dei miracoli.
«Spero voglia far colazione con me domani!» disse.
«Sì!» risposi con una lacrima che non riuscii a trattenere e una carezza che lei riuscì a dare. Quella notte faticai a dormire e il cuore batteva forte ad una porta chiusa che fino a quel giorno mi era sconosciuta, confinata in chissà quale regione del corpo.
Davvero una lettera poteva tanto?
Nella bufera dell’insonnia fui tentata di leggere il biglietto, ma dall’anziana signora avevo imparato la pazienza.
L’indomani, complice la notte inquieta, dormii fino a tardi e fu la prima e l’ultima volta durante il servizio in quella casa. Di solito la sveglia era alle sette e poco dopo Antonia consumava la colazione di pane burro e marmellata, una tazza di latte caldo e caffè e zucchero di canna. Io invece ero rimasta con la mia infanzia di pane secco e caffè d’orzo.
Erano le dieci e ventisei. Ventisette.
Mi precipitai in cucina e trovai nonna Antonia là ad aspettarmi, non disse nulla dicendomi così che aveva capito. Mi versò il caffè e lesse il suo biglietto.
«Mio marito mi ha lasciato tutto dentro queste parole, ogni mattina ne leggo uno anche adesso che non c’è più. Li ho tenuti per quando sarei stata sola. Come ora…e così mi sembra che sia ancora qui».
Pensai a quell’uomo, a quella donna, al loro amore possibile solo in quel felice angolo di mondo.
Pur sapendo che il regalo di quel biglietto era un’illusione sentivo che la solitudine mi avrebbe abbandonato. Aprii. C’era la data di vent’anni prima.
«Vado al lavoro, ricordati il pollo e le patate, altrimenti come facciamo per la cena?
A dopo.
Tuo, sempre… IVAN».


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