Dal viaggio negli abissi di Pan - Itinerario personale attraverso l’inganno mentale della catastrofe imminente

di

Ambra Manuela Tremolada


Ambra Manuela Tremolada - Dal viaggio negli abissi di Pan - Itinerario personale attraverso l’inganno mentale della catastrofe imminente
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 180 - Euro 14,00
ISBN 9791259511621

eBook: pp. 176 - Euro 7,99 -  ISBN 9791259511966

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In copertina: «Abisso» di Ambra Manuela Tremolada


PREFAZIONE

Il libro di Ambra Manuela Tremolada ripercorre un sofferto percorso che deve fare i conti con i continui attacchi di panico e, ancor più dolorosamente, la comparsa di questi attacchi durante le prime esperienze esistenziali nel periodo dell’infanzia.
L’itinerario personale viene indagato attraverso “l’inganno mentale della catastrofe imminente” avvertito in questi momenti: ecco allora che la sensazione della fine d’ogni speranza, soffoca la mente, la attanaglia e se ne impossessa.
Si assiste al dominio totale di questa condizione lacerante e straziante che cambia le prospettive future e le scelte da fare, condiziona le azioni e le speranze, toglie il respiro e sovverte le nostre illusorie certezze.
La narrazione di Ambra Manuela Tremolada ripercorre, in modo perfetto, tale condizione psicologica, l’inevitabile dissidio interiore ed il travaglio continuo, nonché la limitante condizione che viene avvertita e patita quando gli attacchi di panico diventano un lento sprofondamento nell’abisso che sfugge alla razionalità, una sorta di via di fuga dalla vita e dall’assenza di “sensibilità emotiva” da parte degli altri
L’autrice Ambra Manuela Tremolada, nelle prime pagine del suo libro, scrive con estrema sincerità: “Il panico con la sua sintomatologia esplosiva è comparso nella mia vita come una catastrofe esistenziale…”, e bastano queste poche parole per far comprendere appieno la condizione lacerante che viene vissuta, l’attanagliamento della mente davanti al quale si è impotenti.
Come ben sottolinea, tale malessere è difficile da comprendere e risulta fondamentale captare i segni premonitori, indagare l’origine dei disturbi e capire l’importanza di avere un sostegno, oltre ad una personale strategia per convivere con tale disturbo e riuscire a gestirlo nel miglior modo possibile.
La narrazione riconduce ad una sorta di visione armonica della condizione esistenziale vissuta, riuscendo paradossalmente a “superare” il doloroso stato d’animo per giungere, dopo molti anni, ad una consapevolezza che gli attacchi di panico facevano anch’essi parte della “sua identità” e che, ormai, le appartenevano come parte di lei stessa.
Ecco allora che tale percorso di crescita, accomunato alla sua patologia, diventa strumento indispensabile per iniziare a scrivere il personale viaggio di conoscenza, infatti, la storia che viene narrata nel libro contiene numerosi aspetti autobiografici, come scrive la stessa Autrice: dall’iniziale insonnia sofferta da bambina unita ad una situazione familiare che vede la totale assenza della figura del padre; passando attraverso situazioni di forte malessere, senso d’oppressione e d’angoscia, l’allergia per la luce solare e l’infezione ad una gamba; oltre ad alcune esperienze di molestie subite da giovane; poi, la terribile angoscia che attanaglia anche solo per un banale infortunio o addirittura il terrore di essere colpita da infarto, per giungere al dramma quotidiano degli attacchi di panico associati al terrore del senso imminente della morte.
Il processo di analisi mette a nudo ogni specifica esperienza e la scandaglia senza paura: le faticose e laceranti esperienze esistenziali; gli stati d’angoscia alimentati dalle “solitudini infantili”; il dolore per la morte delle persone care; la capacità di resistere al dolore; la sensazione di umiliazione per il fatto di sentirsi fragile ed indifesa davanti agli attacchi di panico, ma anche le esperienze che contraddistinguono il suo cammino di crescita come i diversi lavori svolti, il grande desiderio di viaggiare e la nascita di due figlie.
Il processo narrativo si nutre d’una visione esterna in terza persona che decisamente offre molteplici strumenti per indagare nel profondo, penetrando e cogliendo le dinamiche interiori più celate e riuscendo a raccontare, con estrema sensibilità, il disturbo sofferto, rapportandolo alla propria vicenda esistenziale e facendo percepire fortemente come esso agisca sulla mente e sul corpo, generando terribile sofferenza che si può definire “oggettiva ed unica”.

Massimo Barile


Dal viaggio negli abissi di Pan - Itinerario personale attraverso l’inganno mentale della catastrofe imminente


A me stessa


A tutti coloro
che hanno faticato a capire


“…gli attacchi di panico sono la risposta
più amara per chiunque percepisca nella
carne l’assalto del mondo, il suo abisso; il
corpo non riesce a regger all’insensatezza
del vivere alla roulette dell’esistenza e così
fugge nell’oceano del panico…”

Roberto Saviano


Introduzione

Sono trascorsi moltissimi anni da quando mi è capitato di incontrare per la prima volta sul mio cammino l’apparizione di quel particolare stato emotivo che contraddistingue gli attacchi di panico.
Non potendo prescindere, dopo quella prima comparsa, dall’occuparmi di questa condizione interiore, ho avuto modo di approfondirne alcuni aspetti e di riflettere sugli effetti che produce. Non soltanto nel momento di acuzie estrema obbliga infatti a fare i conti con la sua presenza, ma in ogni istante della vita impone di inglobare una particolare modalità di pensiero che la contraddistingue.
Il panico con la sua sintomatologia esplosiva è comparso nella mia vita come una catastrofe esistenziale in quella fase in cui stavo affrontando la mia introduzione nel mondo adulto con lo sguardo adolescenziale e in anni in cui ancora il disturbo non aveva acquisito una precisa e divulgata definizione in ambito scientifico.
Il mio malessere veniva pertanto associato a tante ragioni diverse e a tante altre connotazioni sintomatiche, senza che fosse ancora tuttavia attribuita a questa sindrome una sua reale dignità terapeutica e nosologica.
Questo aspetto della considerazione del disturbo ha rallentato in parte la coscienza dell’effettiva sostanza che si porta, ma contemporaneamente mi ha anche permesso di intrattenermi a lungo nell’osservazione delle varie forme rappresentative che ha assunto per me con il passare del tempo, portandomi alla fine ad una profonda conoscenza di come questa sofferenza abbia agito sui miei pensieri, sulle mie scelte di vita e anche sul mio enorme bisogno di documentarmi sulla tematica con conoscenze teoriche.
Nel corso del tempo ho appreso i principali aspetti che caratterizzano il disturbo e ho avuto modo di approfondire la loro fenomenologia e le peculiarità che lo compongono. Ho imparato ad individuarne i segni premonitori e ad interpretare con rapidità le condizioni di ogni contesto per prevenire nel limite del possibile la sua particolare deflagrazione. Mi sono addestrata a cogliere da alcune condizioni fisiche e dalle svariate situazioni sociali di un ambiente quelle verso le quali la mia esposizione diviene a rischio.
Ho inoltre cercato in maniere diverse di affrontare le situazioni remote che nella mia storia di vita potevano correlarsi in qualche modo all’origine del mio disturbo, analizzando le differenti associazioni che suscitavano e cercando di elaborarne il senso. Ho compreso che esisteva nella mia essenza un nucleo sommerso e occulto, ma nello stesso tempo consistente e fondamentale per la mia struttura psicologica. Sono pervenuta a considerarlo, nel momento che l’ho scoperto, come un cardine determinante per il concatenarsi di molti stati emotivi e molte conseguenti scelte di vita.
A lungo ho evitato di condividere molti degli stati d’animo che la compagnia del panico sviluppa, tranne con quelle persone che di volta in volta dentro di me eleggevo a punti saldi sulle quali riversare il ruolo di sostegno alla mia fragilità, bisogno assoluto di chi sperimenta questa condizione. In molti casi mi sono sentita banalizzata, derisa e sottovalutata nella gestione ed esplicitazione dei miei malesseri, che spesso ho avvertito inusuali ed ingombranti, in modo ancora più corposo durante la ricerca di omologazione giovanile.
Avrei in molte occasioni desiderato incontrare una particolare sensibilità emotiva che portasse gli altri ad offrire considerazione a quel disagio, piuttosto che una certa dose di insofferenza, come invece molte volte mi è capitato di leggere nel comportamento altrui. Questo desiderio è stato a lungo racchiuso nei miei più reconditi propositi di vita, come sempre viva è stata la speranza di incontrare una sorta di tenerezza speciale, che mi ripagasse e nello stesso tempo mi proteggesse da quel nucleo di tormento sproporzionato che sovente mi invadeva.
Per molti anni avrei voluto liberarmi di questo abitante dei miei pensieri voluminoso e inopportuno e poter avere un controllo totale sulla sua forza dirompente. Oggi, dopo un tempo interminabile durato quasi tutta una vita, mi ritrovo invece inaspettatamente a pensare che anche il panico faccia parte della mia identità e che mi appartenga profondamente come una reale parte di me stessa meritevole di attenzione e rispetto.
Sono cosciente delle numerose limitazioni che mi ha imposto e che in buona parte tutt’ora ancora mi impone, ma non lo combatto più e soprattutto non me ne vergogno, come invece spesso mi accadeva in passato.
La sua voce, a volte sgraziata e aggressiva, è in fondo un risvolto della mia stessa voce. Risuona del dolore, molesto e irruente verso il mondo, che non ho mai saputo rendere nella giusta misura evidente, e che ho indirizzato spesso contro me stessa, subendone il rimbombo ogni qual volta inaspettatamente sentiva quel suo forte bisogno di tuonare. Da quando tuttavia ho smesso di combatterla, questa voce prorompente si è fatta più cortese e ha accettato di convivere anche con alcune delle mie richieste.
Il panico non fa più parte di qualcosa di misterioso e potente, che si colloca in luoghi sconosciuti e distanti. È ora una porzione della mia integrità, scomoda forse, complessa e non sempre facilmente metabolizzabile, ma pur sempre un lembo significativo dell’insieme della mia dimensione interiore. Un ritaglio di me stessa che di tanto in tanto necessita di luce, come simbolo possente di qualcosa che forse abita immerso nella profondità del mio animo e non ha mai potuto far affiorare, in nessun altro modo oltre a questo, la sua rispettabilità per conquistarsi il giusto posto nel mondo.
Soltanto adesso, giungendo a questa profonda percezione e consapevolezza, ho potuto scrivere di questo argomento. La storia raccontata nei suoi scorci e nelle caratteristiche della protagonista rimanda anche infatti ad aspetti autobiografici. Il “Viaggio di Pan” si svolge tuttavia in terza persona, perché la scrittura nella sua funzione interpretativa non è mai solo resoconto. La visione dall’esterno ha inoltre rappresentato l’opportunità di osservare con maggior accuratezza e profondità la manifestazione di processi interni, difficili da metabolizzare e soprattutto ancor più da descrivere. Lo sguardo disgiunto permette infatti quella dimensione razionale necessaria alla collocazione di emozioni a tal punto forti.
Allo stesso modo i luoghi indicati non vengono specificati ma solo descritti in modo generico, con la precisa intenzione di non attribuire valore di definizione all’intreccio, privilegiando i processi di costituzione dell’impalcatura emotiva, che sottendono il costrutto fenomenologico alla base dello stato di panico.
Il libro vuole infatti raccontare l’incontro con questo di-sturbo, in tutta la sua dimensione soggettiva e particolare, nei profondi legami che ha assunto soprattutto con la mia storia esistenziale e il mio specifico modo di sentire la vita stessa. Non ambisce ad essere spunto per determinarsi come un denominatore comune, bensì soltanto come esposizione di una delle tante modalità in cui si esprime attraverso il linguaggio della mente e del corpo una sofferenza assolutamente individuale e unica per ciascuno, anche se diffusa in molte persone.

Ambra Manuela Tremolada


“…per andare avanti è necessario guardare indietro, sin dove la vista si appanna e il pensiero rischia di perdersi. Ma perdersi è forse l’unico modo per ritrovarsi…”

S. Vegetti Finzi, La Psicoanalisi n. 41


Dapprima…

“…È come se si capisca
solo quello che si può
tollerare di capire.”

Felicity de Zulueta “Dal dolore alla violenza”


1

Stava spesso dietro la finestra ad osservare la strada e quando l’umidità appannava i vetri si divertiva a disegnare sul velo di condensa che li ricopriva.
Alle dieci della mattina attendeva il passaggio del carretto con l’organino che ogni giorno si presentava davanti ai portoni per raccogliere qualche moneta dai passanti frettolosi. Con il naso appiccicato al vetro guardava l’uomo passare, finché si allontanava in fondo alla via e non si udiva più il suono della sua musica. Quella musica dolce dalle melodie soavi e ritmate ed il vecchietto che le azionava, solitamente dimesso e un po’ triste, spesso le suscitavano il bisogno di piangere, ma lo faceva in silenzio e soltanto quando era da sola, perché se ne vergognava molto. La suggestione di quel momento in pochi istanti gradualmente si affievoliva, riportandola velocemente alla sua semplice realtà di ogni giorno.
Rimaneva per lo più in compagnia della nonna, illudendosi maldestramente di aiutarla a cucinare, oppure andava insieme a lei a fare commissioni; poi guardava il mondo. Aveva sviluppato una grande capacità di osservare le più svariate e minuscole situazioni, piccoli frammenti della vita quotidiana di chi viveva attorno a lei.
Lo spazio davanti alla sua casa era soltanto una piccola via cittadina un po’ appartata. Durante la sua osservazione coglieva le diverse trasformazioni stagionali che, nello scorrere dei giorni, le differenti condizioni meteorologiche apportavano all’insieme di quell’ambiente. Era un’abitudine consolidata la sua ed ogni giorno i suoi grandi occhi di bambina curiosa si avvicinavano a quella finestra per sporgere la sua occhiata su quel minuscolo spicchio di mondo. Lo sguardo non si perdeva in paesaggi e ambienti naturali; davanti ai suoi occhi veniva impressa la struttura dei palazzi circostanti, ingrigiti dal tempo e dallo smog cittadino. Uno spicchio di cielo soltanto s’innalzava tra alcune fessure dei tetti, sovrastando quegli opachi marciapiedi che nelle ore del mattino si popolavano di passanti frettolosi e indaffarati, concentrati sui loro svariati impegni del momento e assorti nella loro dimensione quotidiana. Un’essenza un po’ stantia di tostatura del caffè si sprigionava spesso in quelle ore dalle varie finestre e dai piccoli bar dei dintorni, inondando le vie di tipico sapore mattutino.
Abitava in quell’appartamento da quando aveva due anni, periodo in cui aveva anche iniziato finalmente a dormire dopo un tempo iniziale della sua vita in cui era stata totalmente incapace di prendere sonno. Della sua iniziale insonnia era rimasta solo una caratteristica che la contraddistinse sempre anche in seguito. La mattina si svegliava infatti all’alba, molto prima delle altre persone. Quei suoi risvegli le imponevano a volte una noiosa attesa, perché voleva essere una bambina gentile e spesso mutilava le sue esigenze in favore degli adulti che le stavano accanto. Rimaneva allora nel suo lettino in attesa che qualcuno della famiglia si svegliasse, timorosa del fatto che il suo risveglio potesse in qualche modo arrecare disappunto ai suoi genitori.
Nonostante non ricevesse molte attenzioni da suo padre, temeva sempre in modo particolare la sua irritazione e anche per questo si rassegnava all’attesa silente, che talvolta durava perfino qualche ora. In quei momenti giocava con i suoi pensieri e usava l’immaginazione per correre lontano, in luoghi e tempi diversi che il naturale talento della sua fantasia infantile sapeva creare. Da quei tempi iniziò tuttavia a odiare la domenica, provando un profondo disgusto per i ritmi differenti che la festività settimanale comportava e per la sosta forzata maggiormente lunga e penosa nell’attesa dei risvegli, a cui era sottoposta nei suoi giorni di festa.
Era una bambina dalle caratteristiche un po’ insolite. Non faceva molte richieste e non osava mai esprimere un capriccio. Quando qualcosa, come un giocattolo nuovo, colpiva particolarmente la sua attenzione, non si permetteva mai di chiederlo in regalo. Si limitava ad esaltarne in modo enfatico e ostentato le qualità che a suo parere presentava, nella speranza di poter indirettamente invogliare gli adulti ad offrirglielo. Se il suo intento non risultava tuttavia efficace, pur a malincuore vi rinunciava senza pretese. Aveva acquisito prestissimo una capacità inusuale a resistere, a stringere i denti, a tollerare. Si era installata in lei l’illusoria considerazione che dopo ogni resistenza al disappunto e al dolore vi sarebbe stata inevitabilmente una rivincita, un premio alla sopportazione che avrebbe in qualche modo ripagato la fatica. Aveva inoltre imparato precocemente ad imporsi un impegno per trasformare un qualsiasi disagio in qualcosa di accettabile. Un’indole resiliente si stava per qualche ragione già strutturando in lei, portandola a cercar di scovare sempre in ogni situazione un canale di sbocco e di trasformazione. Questa condizione, tuttavia, non le permetteva a volte una combattiva reattività agli eventi, orientandola più alla resistenza che alla difesa.
In questa sua atmosfera quotidiana, inseguendo per lo più le immagini di quel piccolo scorcio di umanità, che la sua abitazione le offriva, la sua mente bambina rincorreva sogni fantastici; trascinata dai mille colori, di cui si intingono spesso i pensieri infantili, si dilettava nell’invenzione di storie articolate e coinvolgenti, che rappresentava in abbondanza sul palco interiore predisposto dalla sua immaginazione.
Un modo che adottava spesso per esternare la sua rappresentazione del mondo in quegli anni in cui era piccina era quello di imbrattare i muri. Non appena si accorgeva di non essere osservata, cominciava a disegnare su ogni parete. La sua attività di writer in miniatura aveva cosparso tutta la casa di scarabocchi e nonostante le venisse ripetuto costantemente di utilizzare i fogli e gli album da disegno che le venivano procurati ogni giorno, i muri rimanevano la sua attrattiva preferita. Ben presto l’appartamento fu tutto cosparso dei suoi graffiti, talvolta ancora poco comprensibili ma variopinti e dai caratteri molto ben incisi.
Trascorreva molti mesi dell’anno in quella casa, tranne durante l’estate, quando le immagini che davano spunto alle sue fantasie all’improvviso mutavano, trasportandola in una dimensione di concretezza e sperimentazione. In quei mesi andava infatti con i nonni sul lago, dove le sue giornate godevano di spazi aperti, di nuotate e di tanti giochi di spiaggia, spesso anche insieme ad altri bambini.

[continua]


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