Opere di

Alessandro Cuppini

Con questo racconto si è classificato al decimo posto al Concorso Città di Melegnano 2008 sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria: «Echi pirandelliani in questo quadro ironico e simbolista della vecchiaia e dei suoi acciacchi: si può sconfiggere la senilità con stratagemmi fantasiosi». Alessandra Crabbia


La livella

Il signor Gioachino era rimasto vedovo. Sua moglie l’aveva lasciato 
dopo una vita che non so felice, ma nemmeno triste. Forse era una di quelle unioni che se non ci fossero state sarebbe stato meglio, ma ora che c’erano sarebbe stato peggio per entrambi se l’avessero rotta.
Gli ultimi anni uscivano insieme, per andare a far la spesa; lui sempre rigido e diritto, lei appoggiata al bastone, sempre più curva. Di una strana curvatura asimmetrica della colonna vertebrale, che la faceva ruotare verso sinistra oltre che chinare verso il basso. Non credo soffrisse, ma certamente era scomodo vivere con quella visione sempre così parziale del mondo.
«Tirati su, dunque!», le diceva Gioachino duramente. Pareva che quando si rivolgeva a lei non potesse che darle degli ordini che si spegnevano con la congiunzione conclusiva dunque.
«Non ci riesco, Gioachino. Non è colpa mia».
La signora Rosa aveva un dolce sorriso inerme. Gioachino invece aveva un distacco e una sostenutezza nei rapporti con me da darmi l’impressione quando gli parlavo di farlo col suo rappresentante. Mi aspettavo sempre mi dicesse: «D’accordo, ne parlerò con me stesso e le farò sapere».
Quando incontravo la coppia mentre tutti e tre salivamo le scale, lei ruotava da una parte e si fermava sullo scalino dicendo sempre quella solita frase:
«Largo ai giovani».
E mi lasciava passare.
«Ma vai avanti, dunque!», la spingeva Gioachino, indispettito per il suo servilismo.
Ma lei resisteva ed io la superavo facendo i gradini a quattro a quattro.
Tutto questo andò benissimo fino ad una certa età, ma dopo i cinquanta mi resi conto che mi costava fatica quello scatto giovanile. Ma per loro ero sempre un ragazzo, e non c’era niente da fare:
«Vada, vada, lei che è giovane!», diceva la signora Rosa.
«Eh, magari! Tanto giovane non sono più, cara signora…», dicevo io cercando di esimermi.
«Figuriamoci, signor Sandro!», faceva lei.
«E vai dunque!», si spazientiva Gioachino spingendola.
Ma lei puntava il suo bastone sul gradino. E così ero costretto a superare la coppia in tromba, prigioniero del ruolo del giovanotto a tutti i costi. Alla fine della rampa di scale, avevo il fiatone e il cuore che batteva forte forte: mi sentivo uno scemo.
Un giorno la scomodità della vita, recintata dalla schiena storta e invelenita da Gioachino, divenne intollerabile, e la signora Rosa morì. Gioachino la accompagnò al camposanto camminando dritto come un fuso, e senza una lacrima. Poi tornò a casa e provò ad organizzarsi la vita da solo.
Ci riuscì perfettamente, destreggiandosi tra lavatrice e aspirapolvere con una competenza a priori insospettabile. La mattina appena alzato lavorava un’oretta a pulire la casa, con i ritmi lenti che poteva permettersi. Poi si lavava e si preparava ad uscire. E gli ci voleva più tempo ancóra perché non era tipo che tirava via quando si trattava di vestirsi.
Era sempre impeccabile ed elegante.
Per scendere dal panettiere sotto casa a prendere le due solite michette, tempo di esposizione agli occhi della gente uguale a 4 minuti, era capace di prepararsi per un’ora e mezza. Non sarebbe mai sceso con i calzoni che usava per fare i mestieri in casa, né con la giacca da camera: ci teneva ad essere a posto. E ne sapeva qualcosa la signora Rosa buonanima: quanto l’aveva fatta penare se per caso la piega dei calzoni non era come diceva lui. Capace di farseli stirare apposta per, appunto, traversare la strada fin dal panettiere.
E così passava metà della mattina a prepararsi ad uscire, che era anche un modo per occupare il tempo; sta di fatto che quando sentivo tirare i rumorosi chiavistelli della sua porta, io piantavo lì quel che stavo facendo per affacciarmi alla finestra e godermi lo spettacolo del signor Gioachino che andava a comprare il pane.
D’estate aveva immancabilmente la paglietta e la canna di bambù. E poi, a seconda del capriccio del giorno, una camicia di seta dai colori strambi come il ciclamino, il malva o il salmone, una cravatta sottile di stile antico e un paio di calzoni di lino appena stirati. D’inverno, un cappotto a doppio petto con un ampio bavero rivestito di pelo di lupo, dall’aria più femminile che maschile, che non veniva mai rialzato nemmeno se la bora gli avesse irrigidito dal gelo le orecchie. Quel pelo se ne stava appoggiato sulle spalle, ben lontano da essere utile per riparare dal freddo. Né il doppio petto veniva chiuso, perché, così mi immaginavo io, doveva vedersi la bella cravatta di lana scozzese che chiudeva il collo della camicia sportiva di flanella con i due bottoncini al colletto.
A volte lo incontravo sulle scale, come ai bei tempi quando usciva con la signora Rosa.
«Si copra signor Gioachino, che oggi fa un freddo cane».
«Ma cosa vuol che sia…»
Giocava a fare il vècio alpin dalla salute di ferro. E infatti non aveva mai niente, beato lui.
Lui si guardava bene dal cedermi il passo come faceva la moglie, e io ne ero ben lieto.

Un giorno, erano passati due anni dalla morte della Rosa, mi accorsi che tanto diritto poi non camminava più. Si era leggermente incurvato, e questo era normale alla sua età. Ma quel che mi stupì era che tendeva a ruotare da una parte, proprio come la signora Rosa. Solo che lui era destrorso mentre sua moglie girava dalla parte opposta.
«Forse è solo un’impressione», mi dissi.
Ma non era così: la deformazione peggiorò rapidamente e dopo sei mesi il signor Gioachino era già inclinato di un buon trenta gradi verso destra.
Ma guarda che combinazione: chissà la signora Rosa dall’aldilà come se la rideva!
«Gioachino! Tirati su, dunque!», avrebbe potuto dirgli se fosse stata ancóra viva.
O forse no, timida e gentile avrebbe fatto il suo dolce sorriso e sarebbe stata zitta.
Però a me non andava giù di lasciargliela passare così: l’aveva martirizzata per anni con quella frase e ora che capitava al marito lo stesso guaio lei non c’era più per prendersi quella piccola rivincita.

Una mattina di primavera che scendevo le scale me lo vidi davanti con un cachemire color albicocca, una allegra camicia verde prato, la paglietta e la canna di bambù. Era due o tre gradini davanti a me, così sbandato da rendere difficile il sorpasso.
«Buongiorno, signor Gioachino!», dissi forte: ultimamente era diventato un po’ sordo.
«Buongiorno», rispose girando appena la testa, e naturalmente si guardò bene dal darmi il passo.
«Che bella giornata, ha visto?».
«Già, già».
Nello slargo del pianerottolo lo superai, e non resistetti alla tentazione di dirgli:
«Si tenga su, signor Gioachino».
Lui non rispose: ero certo che avesse sentito ma forse non aveva capìto.
La stessa scena si ripeté qualche giorno dopo:
«Buongiorno signor Gioachino».
«Buongiorno», mi rispose austeramente.
«Stia dritto, su!», gli dissi superandolo al pianerottolo. E questa volta mi rispose sorpreso: «Ma io sto dritto».
La sua inclinazione invece peggiorava così rapidamente che non mi parve possibile addebitarla ad una alterazione della colonna vertebrale: impossibile che le ossa si deformassero con una simile velocità, forse era qualcos’altro, una malattia diversa da quella che aveva afflitto gli ultimi anni della moglie.
E infatti dalle sue risposte sempre più sorprese quando gli dicevo di star diritto capii che al contrario di lei Gioachino non si rendeva conto di viaggiare tutto sbandato verso destra, e credeva di avere la solita postura diritta e rigida da alpino che non ha paura di niente.
Che strano!
La sera accesi il computer e navigai un’oretta in internet. E così scoprii che il morbo di Parkinson poteva avere manifestazioni subdole.
Mi presi a cuore il problema. Pensai che il signor Gioachino non era uno stupido, ma aveva le sue idee dalle quali nessuno lo avrebbe potuto smuovere finché non fosse stato messo di fronte all’evidenza. E forse neanche il quel caso, ma tanto valeva provare. E così presi la macchina fotografica e gli scattai due foto di nascosto: una dal davanti di fronte al panettiere e l’altra da dietro, nel cortile sùbito prima delle scale del nostro condominio. Il giorno dopo scendendo le scale, sul pianerottolo gliele feci vedere:
«Guardi un po’, signor Gioachino. Ho comprato una macchina fotografica nuova e l’ho voluta provare. Le ho fatto due foto, così. Tanto per impratichirmi».
Lo guardavo fisso in faccia mentre gliele allungavo; lui prese in mano le foto e strabuzzò gli occhi:
«Ma… non sono io», mormorò.
«Come non è lei? Ma cosa dice? Guardi un po’: il suo panama, il suo bastone…».
Capii che era proprio vero: non si era mai accorto di pendere come la torre di Pisa. Si fece di colpo intento, aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra.
«Forse è bene che si faccia vedere da un medico».
Gioachino non rispose, si girò e tornò in casa.
Il giorno dopo non uscì, e neanche quello successivo.
«Cosa succede?», pensai preoccupato. «Che stia male? O non è stato piuttosto un errore il mio, quando gli ho fatto notare quel suo difetto del quale ora si vergogna tanto da non voler più uscire di casa?».
Sapevo che era così, che Gioachino stava benissimo fisicamente; ma io gli avevo distrutto l’immagine che aveva di sé, di duro che affronta le vicende della vita senza paura. Dio, che disastro avevo combinato!
Scesi al piano di sotto e suonai il campanello. Mi sembrò lo scampanio di Pasqua: Gioachino era diventato ancóra più sordo ultimamente e ne aveva fatto installare uno speciale.
Mi aprì in veste da camera, mi accolse in salotto.
Intravidi i piatti sporchi nel secchiaio in cucina e il letto sfatto attraverso la porta della camera da letto: si era lasciato andare, non si curava più della casa.
«È andato dal medico signor Gioachino?».
«Cosa vuole che vada a fare da quell’ignorante?».
«Non è vero, magari le dà una buona cura. Vuole che l’accompagni?».
Andammo dal medico, che lo visitò e poi mi prese da parte.
«Che mestiere faceva?».
«Il capomastro».
«Una vita all’aria aperta, quindi. Strutturalmente non ha nulla, le vertebre sono straordinariamente integre per la sua età, anche l’orecchio interno non sembra danneggiato».
«Che cos’ha?».
«È il Parkinson», confermò. «Il cervello riceve informazioni da certi sensori situati nelle giunture e nei tendini che forniscono la consapevolezza della posizione del tronco e degli arti nello spazio. Questi sensori sono quelli che permettono al nostro corpo di avere nello spazio un allineamento e un equilibrio corretti. La malattia ha attaccato quella parte del cervello deputata a ricevere le informazioni dei sensori. Non c’è nulla da fare».
Tornando a casa Gioachino chiese:
«Cosa ha detto?».
Gli feci discorsi vaghi e ottimistici.
«Soldi buttati via», concluse amaramente.
Non volevo arrendermi, e tutta la sera pensai come risolvere il problema.

La mattina seguente suonai le campane di Pasqua alla porta di Gioachino. Mi aprì, più storto che mai, ma in più con una cupezza nello sguardo che mi strinse il cuore.
«Signor Gioachino, ha ancóra i suoi strumenti da capomastro in casa?», chiesi cercando di mascherare la pena.
«Perché, deve fare qualche lavoro?».
«Ma, così… Me li può far vedere?».
Gioachino aprì lo sgabuzzino e tirò fuori una vaschetta di legno incrostato di vecchio intonaco; dentro c’erano la cazzuola, il frattazzo, il martello, il secchiello, due o tre scalpelli e una livella. Proprio questa cercavo. La presi e dissi:
«Signor Gioachino, si ricorda cos’era questo strumento?».
Mi guardò da sotto in su con occhi stizziti:
«Mi prende per scemo? È la livella».
«Già. Serve a verificare se una superficie è in piano oppure no, oppure se è inclinata rispetto alla verticale. Il medico mi ha detto che noi nella testa abbiamo una specie di livella che ci permette di restare diritti quando stiamo in piedi o camminiamo. La sua testa questa livella l’ha perduta».
Gioachino mi guardava chiedendosi dove volessi andare a parare.
«E allora?», chiese scontroso.
«La prenda in mano», dissi. «La guardi».
Prese la livella tra le mani robuste e chinò la testa.
«Lei sa come funziona: la bolla deve restare al centro».
«Già».
«Lei non è in bolla, signor Gioachino. Si raddrizzi» comandai con voce energica.
Lentamente, seguendo il movimento della bolla, la figura di Gioachino si raddrizzò, fino ad assumere la posizione verticale.
«Mi dia la livella ora» dissi.
«Ma cosa vuol fare?», mi chiese seccato.
Gli presi la livella. Rapidamente il busto riprese la sua posizione contorta.
«Ancora una attimo di pazienza signor Gioachino».
Gli ridiedi la livella raccomandando:
«La tenga in bolla‚».
Gioachino si rimise in verticale. Avevo con me la Polaroid e gli feci un paio di foto con la livella in mano. Quando gliele feci vedere, Gioachino sorrise:
«Sono diritto», disse.
«Già. La livella la aiuta a tenere la verticale».
«Ma non posso girare per la strada con la livella in mano».
Pensava già ad uscire, e questo mi dava speranza di recuperarlo.
«E perché no? Gliene vado a comprare una più piccola, questa è troppo ingombrante».

Gioachino fece un po’ di allenamento in casa e dopo tre o quattro giorni si sentì pronto ad uscire. Mi aveva chiesto di accompagnarlo la prima volta e lo passai a prendere verso le dieci.
Era una bella mattina di prima estate. Si era vestito con una cura d’altri tempi: la sua più bella camicia di seta, di colore ocra, con cravatta fantasia a ghirigori violetti. Calzoni di lino bianchi e scarpe bicolori, crema e testa di moro. Paglietta e canna di bambù. Anch’io del resto m’ero messo elegante, era un’occasione importante e non volevo sfigurare.
Scendemmo le scale uno a fianco all’altro. Gioachino teneva la livella nella mano destra, all’altezza del petto. Ogni tre secondi controllava la bolla.
«Come vado?», chiedeva.
«È perfetto, va bene così».
Ed era vero. Camminava con cautela, più piano di prima, ma anche diritto come prima. Traversammo la strada e andammo dal panettiere. Un’ora prima ero andato a raccomandarmi di non fare commenti Quando entrò era un po’ impacciato ma sereno; si rivolse alla commessa:
«Il solito, Carmen».
«Subito signor Gioachino».
Pagò e uscimmo con le sue tre michette.
«Nessuno se n’è accorto», mi disse spalancando la dentiera in un sorriso.
«Ma se le dico che è perfetto!».

Un mese dopo sto salendo le scale quando vedo Gioachino davanti a me. Sale anche lui, disinvolto, un gradino dopo l’altro, con la livella all’altezza del petto. Ormai tener d’occhio il suo strumento è diventato un fatto automatico, come quando in auto si getta un’occhiata al tachimetro rimanendo liberi di pensare o chiacchierare. E lo fa più di rado ormai, avendo trovato chissà quali altri punti di riferimento tutti suoi che gli permettono di mantenere la posizione eretta.
«Buongiorno signor Gioachino».
«Buongiorno signor Sandro», risponde col tono più alto del normale proprio dei sordi.
Poi si fa da parte sul gradino e dice:
«Vada, vada avanti lei che può. Largo ai giovani!».
E io come uno scemo salgo la rampa a quattro a quattro.


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