…Una donna …una vita

di

Alessandra Rossetti


Alessandra Rossetti - …Una donna …una vita
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 118 - Euro 12,00
ISBN 978-88-6587-5520

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In copertina: fotografia di Stefano Tosoni – Monza st.monza@gmail.com


Alessandra Rossetti è al suo primo racconto.

Il romanzo d’esordio vuole far rivivere nella memoria un periodo che racchiude l’evolversi di una vita, in un paese, in un periodo storico.

Fatti successi da lei vissuti, ora tragici, ora poetici raccontati con emozione ed ironia.

Pittrice, ceramista internazionale si avventura nel campo della narrativa, con l’entusiasmo che sempre l’ha distinta.

Tenace e decisa si sente profondamente donna ed ama ricordare le fatiche per uscire dal ruolo “regina del focolare”.

Spera che la donna d’oggi faccia tesoro delle faticose esperienze delle generazioni passate.


Introduzione dell’autrice

Il giorno 4 aprile, anniversario del mio 90 esimo compleanno, le amiche del Centro Donna, a mia insaputa, hanno organizzato una piccola riunione per festeggiarmi.
Una piccola cosa, mi hanno precisato, comunicandomi l’invito.
Con mia grande sorpresa mi trovai di fronte fotografi e giornalisti.
Il loro affetto e la gioia di avermi con loro mi ha commossa: rimasi senza parole.
L’amica Gina, ex sindaco, che conosceva molto bene il trascorrere dei miei anni e che ha seguito l’impegno e l’entusiasmo della mia carriera pittorica per arrivare al successo internazionale, ha iniziato a complimentarsi offrendomi un dono a nome di tutte: un libro dal titolo “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono.
Al momento non capii. Lessi la prima pagina. Capii il profondo significato: fu un dono per me molto importante.
Così iniziava:
“Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è di una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile.”
In quel preciso momento nacque nella mia mente “…Una donna …una vita”.
Non potevo deludere quelle amiche così generose. Mi avevano collocata in cima alla scala delle persone eccezionali.

Alessandra Rossetti


…Una donna …una vita


…Una donna …una vita

…un lontano giorno del 1926…

Una bimba, ancora piccola, varcava la soglia dell’Asilo Infantile, che il comune aveva da poco costruito sul terreno della parrocchia. Iniziava così la sua vita al di fuori della famiglia. Incontrava altri piccoli amici, tutti – come lei – di circa tre anni, insieme ai quali imparava a confrontarsi.
Nel cortile dove giocavano era collocato un piccolo rubinetto, con una specie di conchiglia per raccogliere l’acqua. La tentazione era forte: la bimba si arrampicava sulla punta dei piedini fino a raggiungere il rubinetto. Finalmente aperto, l’acqua prendeva a scorrere e immancabilmente s’infilava nella manica del grembiulino bianco dal fiocco rosa, scorrendo fino a bagnarle il pancino.
Di corsa la Madre Superiora dalla mano lesta, con la grinta di un giustiziere, arrivava a porre fine a quella felice conquista. Lei non capiva perché, una volta tornata a casa bagnata, la mamma completava l’opera iniziata da Madre Antonia.
La tentazione però restava forte ed ogni giorno arrivava a coinvolgere un gruppetto sempre più numeroso di compagni, che emulavano le gesta di quella birichina e decisa bambina.
Lei, soddisfatta, sentiva di essere diventata “il capo”…


L’edificio che ospitava l’asilo era stato costruito nella piazza della chiesa. Portava lo stemma fascista e recava una scritta a caratteri gotici: “a ricordo dei caduti della guerra 1915/18”. Al piano terra vi era l’aula coi seggiolini posti davanti ai piccoli banchi, dove noi disegnavamo – si fa per dire – e imparavamo a fare i puntini e le aste su minuscoli album a quadretti.
La sala più interessante era quella dove ci veniva servito il pranzo. Solo il primo piatto però, il seguito ciascuno di noi lo trovava nel cestino che si portava da casa, che in genere conteneva un panino e un formaggino. Le suore poi distribuivano la frutta: un mandarino. Il profumo delle bucce si diffondeva in tutta l’aula e rimaneva appiccicato alle mani ed anche al grembiulino, avvolgendoci dolcemente.
Ancora oggi, a tavola, ogni volta che nel porta-frutta ci sono dei mandarini, quell’inconfondibile profumo ha il potere di riportarmi indietro nel tempo e così mi ritrovo seduta in quella sala, al piccolo tavolino di allora. È un ricordo che nessun altro evento riesce a far dimenticare. È il ricordo della mia gioiosa infanzia.
Al piano superiore vivevano le suore: zona proibita. Nessuno riusciva a salire le scale che portavano di sopra. Chiunque ci provasse si trovava di fronte Madre Antonia, ritta e impettita, a fare da guardia. Bastava solo il suo sguardo.


Passarono gli anni e iniziai il mio percorso alle scuole elementari.
In quegli anni mamma si occupava del negozio, mentre papà era impegnato col suo lavoro.
Avevo una maestra molto brava, che non ho mai dimenticato. Suo marito lavorava nell’editoria. Quando meritavo un buon voto, mi regalava dei libri, che io leggevo voracemente. Sapeva – ed era contenta – della mia predisposizione al disegno e del fatto che amavo i colori. Suggerì quindi a mia madre di iscrivermi al liceo artistico, quando sarebbe stato il momento. In realtà questo non sarebbe mai avvenuto, non ci furono le possibilità.
Col mese di giugno arrivavano le vacanze e il giovedì pomeriggio la mamma ci permetteva di andare, in compagnia di una ragazza più grande, a fare merenda nel campo di grano che si trovava oltre Cascina Caverina, nei pressi di Cascina Pistola, che pare sia stata costruita nel 1500.
Sul muro del porticato, dove si raccoglieva il fieno, vi era una bellissima immagine della Madonna, dipinta da un pittore sconosciuto. Il porticato, insieme ad altri reperti antichi, fu poi abbattuto per far spazio alle impellenti necessità edilizie di un paese smanioso di crescere e di distruggere le memorie del passato.
Le spighe erano state trasportate alla trebbiatura. Il campo brillava di un giallo luminoso, in contrasto con la terra rossiccia che la paglia lasciava intravedere. Io, senza capirne il perché, ero affascinata ed attratta da quei colori.
Tutti, sia i piccoli che i più grandicelli, entravano a raccogliere le spighe rimaste sparpagliate sul terreno. Quanta gioia! Semplice felicità all’imbrunire, quando – tornando a casa – ognuno portava con sé il proprio sacchetto colmo di spighe.
Per noi era un gioco, era un divertimento. Ma era anche qualcosa di utile.


Terminata la stagione della raccolta, mia madre affidava il nostro piccolo gruppo ad un’anziana “nonna” (più che anziana, io avrei detto vecchia!) affinché ci accompagnasse al mulino. Era una lunga camminata sotto il sole, lungo l’argine dei campi, che ormai si erano trasformati in risaie.
Tutt’intorno a noi c’era dunque solo acqua.
La “Giuannina orba”, così chiamata in dialetto perché quasi cieca, camminava un po’ zoppa, guidando la fila indiana di noi bambini. Vestiva una lunga gonna di colore indefinito, con un grembiulone legato in vita e la testa coperta da un fazzoletto scuro. Teneva stretta in una mano la corona del rosario, che recitava biascicando le parole, dato che aveva perso denti. Nessuno tuttavia l’ascoltava. Noi cantavamo, ridevamo quando lei inciampava, aspettandoci che prima o poi cadesse in acqua. Ma non accadde mai.
Quando, stanchi di camminare, fra strilli e brontolii, volevamo fermarci, lei non lo permetteva. Lo considerava evidentemente troppo pericoloso, visto che eravamo circondati da ogni lato dall’acqua delle risaie. Per tenerci buoni frugava allora nelle grandi tasche del grembiule alla ricerca delle mentine, che conservava insieme alla scatoletta del tabacco. Beh!
Lasciati i campi, prima di arrivare al mulino, facevamo sosta davanti a una Cappelletta dedicata alla Madonna, chiamata da tutti “I mort de Mezan”. All’interno, appoggiati su delle assi di legno assieme ad altre ossa umane, vi erano una ventina di crani, che secondo la leggenda erano appartenuti a soldati morti durante “la battaglia dei Giganti” del 1515. L’ossario di Mezzano si trova proprio di fronte ad un campo chiamato “prato dei morti”, sul quale furono rinvenute le necropoli romana e pre-romana. Lasciato in parte crollare per incuria da parte dell’amministrazione comunale, è oggi un reperto storico in fase di recupero e restauro. Quale sia la sua vera storia però non l’ho mai saputo, perché la “Giuannina orba” cambiava ogni volta versione al suo racconto.
Dopo aver assolto il dovere di recitare una preghiera, proseguivamo fino a raggiungere il mulino con la grande ruota, che apparteneva ad una zia di mia madre chiamata “zia Mariin”. La ricordo piccoletta, grassoccia, con un bel viso, sempre dolce, contenta di vederci e pronta a regalarci qualche caramella ed un bicchiere d’acqua. Era finalmente il momento della merenda!
Poi “zia Mariin” ritirava i sacchetti delle spighe e consegnava a ciascuno di noi un po’ di farina bianca. Tornavamo quindi a casa soddisfatti del nostro bottino, contenti di contribuire al pranzo che la mamma, facendoci la pasta, avrebbe preparato.


Venne il periodo dell’Italia fascista.
Eravamo bambini e adolescenti. Seguivamo, senza capire, l’euforia collettiva degli adulti. Portavamo la divisa, che ci identificava: “Balilla” i bambini, “Piccole italiane” le bambine.
Dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, la voce del Duce echeggiava attraverso la radio, comunicando al popolo che “l’ora era giunta”: l’Italia doveva conquistarsi l’Impero.
I soldati partirono per l’Abissinia, iniziò così la “Guer­ra d’Africa”. Il 5 maggio 1936 Badoglio entrò in Addis Abeba.
Imparammo anche noi la canzone che la radio trasmetteva di continuo e che tutti cantavano:

“Faccetta nera
bella abissina
aspetta e spera che già l’ora si avvicina…
Quando saremo
vicino a te
noi ti daremo un’altra legge
e un altro Re…”.

La guerra era lontana.
La copertina della “Domenica del Corriere” illustrava gli atti eroici dei nostri soldati attraverso i disegni del grande Walter Molino. Molti di quei ragazzi partiti per il fronte non tornarono più: giovani vite sprecate. L’Italia però era riuscita a conquistare il suo Impero ed il Re era diventato Imperatore.
Incominciarono le difficoltà, molte materie prime vennero a mancare. Anche il cibo scarseggiava. L’Italia fu punita con l’autarchia dagli altri stati per aver scatenato una guerra che non condividevano. Dalle frontiere quindi non entravano più le merci necessarie all’industria.
Anche la farina mancava. Il Duce decretò la “Battaglia del grano”. Seminarono il frumento ovunque era possibile, persino nelle aiuole in paese e nel giardino della scuola. Sui giornali apparvero le foto del Duce in camicia nera, col fez in testa, nell’atto orgoglioso di salire sulla trebbiatrice. Era il suo modo di dimostrare al mondo che gli italiani potevano sopravvivere anche senza l’aiuto degli altri.


Avevamo fame, ma l’Italia era riuscita ad ottenere il suo “posto al sole” e tutti erano contenti. I giovani sfilavano in corteo per il paese vestiti in divisa come il Duce. I presenti li applaudivano orgogliosi.Su ordine del Duce, si iniziò a somministrare olio di fegato di merluzzo a tutti gli alunni delle elementari perché crescessero forti e robusti. Dopo averli fatti sistemare in fila davanti a lei, la maestra imboccava i bambini: un unico cucchiaio, che portava di bocca in bocca quell’olio denso e puzzolente. Quando si avvicinava il mio turno, mi veniva il voltastomaco. Ma il Duce lo aveva imposto “per il nostro bene” e bisognava obbedire. Ma quanta fatica mi costava quell’ubbidienza!



Alle donne sposate fu chiesto di donare la fede nuziale: la Patria aveva bisogno. Tutte andarono alla sede del Partito Fascista a consegnare il ricordo del loro matrimonio, in cambio di una “fede d’acciaio”, orgoglioso simbolo di un’Italia che andava in pezzi.
Terminata l’autarchia, iniziò la ripresa economica. La Fiat produsse la macchina chiamata “Balilla”. Il Duce organizzò l’Opera Maternità ed Infanzia, i lavoratori ebbero il diritto alle ferie retribuite, alla liquidazione di fine lavoro ed alla pensione di anzianità. Furono organizzate le colonie estive, in località di mare e di montagna, per offrire vacanze collettive gratuite ai figli dei lavoratori. Tutti godevano di un certo benessere. Anche alcuni operai poterono togliersi lo sfizio di acquistare la Balilla o la moto Guzzi e di godere le ferie insieme alle proprie famiglie.
Nel 1936 il Duce siglò con Hitler il patto che sancì l’alleanza Roma-Berlino. Due anni dopo Mussolini stesso e il Re Vittorio Emanuele firmarono la “legge marziale”.
Nel 1939 poi, ci fu la visita di Hitler a Roma.


Il tempo volava. Terminate le elementari, iniziai a frequentare le Commerciali, una specie di scuola media. Nel 1938 conseguii il diploma.
Nel 1939 papà organizzò un viaggio con la sua motocicletta Guzzi equipaggiata di sidecar. Portò me e mia sorella a visitare i luoghi dove aveva combattuto ed era stato ferito nel corso della guerra del 1915-1918.
Fu la prima volta in cui soggiornai in un albergo. Eravamo a Rovereto, all’Hotel Rialto. Si trattava del premio per il mio diploma.
Durante la cena la radio trasmise il discorso di Hitler che dichiarava guerra all’Inghilterra. Un silenzio opprimente aleggiò nella sala da pranzo. Tutti furono colti da un triste presagio, immaginando e temendo le conseguenze sull’immediato futuro.
Terminata la cena, papà ci condusse a visitare il paese. La notte stellata, le montagne scure, i pensieri rivolti al discorso appena trasmesso riempivano il cuore di emozioni e di paura, mentre la campana, fusa col bronzo dei cannoni e delle armi raccolte sui campi di battaglia, diffondeva tutte le sere, alla stessa ora, i rintocchi a ricordo dei caduti.
L’indomani proseguimmo per Ala di Trento, salendo a piedi fino a “Passo Buole” e vidi il punto preciso dove mio papà subì il colpo del cecchino austriaco che lo ferì durante la guerra.Il nemico era appostato da qualche parte sul monte di fronte a quello occupato dall’esercito italiano.
Il ricordo del passato alimentava la paura per ciò che incombeva sulle nostre vite.


A quattordici anni lo zio, marito della sorella di mia madre, mi procurò il primo lavoro come impiegata presso l’officina meccanica di un suo amico. Ci lavoravano pochi operai, era prevalentemente una realtà a conduzione familiare. Soltanto il sabato veniva il giovane ragioniere a controllare che tutto procedesse bene. Io dovevo sbrigare la corrispondenza, fare i conteggi e firmare le bollette del lavoro a cottimo, tenere i registri della partita doppia e alla fine dell’anno redigere il bilancio, che il ragioniere provvedeva poi a firmare. Lavoro impegnativo per me che ero ancora una ragazzina.
A mezzogiorno andavo a pranzo dalla zia, che abitava poco lontano. A fine giornata, invece, mi recavo in stazione a prendere il treno per tornare a casa. Dovevo camminare sempre sullo stesso marciapiede, lungo la stessa via. “Papà potrebbe venire a controllare se vai da qualche altra parte” – m’aveva avvertito mia madre. Non mi concedevo nemmeno la curiosità di fermarmi a guardare le vetrine. Il senso dell’ubbidienza era cresciuto a dismisura in me, cancellando la parola “libertà” dal mio vocabolario.
Quel tipo di lavoro non mi entusiasmava affatto, avevo altre aspirazioni. Mi sarebbe piaciuto disegnare e dipingere, ma non era possibile. Lo dovetti quindi sopportare fino al compimento dei diciassette anni.
Era una domenica mattina, quando si presentò a casa mia il capo-officina. Aveva un’espressione dispiaciuta. Consegnò a mia madre una lettera. Appena ebbe finito di leggerla, mi urlò minacciosa: “Cos’hai combinato? Spiegami…”. Io la guardai esterrefatta, non avevo proprio idea di cosa fosse successo. Non sapevo cosa dire.


[continua]


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