Ti racconto… vuoi…?

di

Alessandra Rossetti


Alessandra Rossetti - Ti racconto… vuoi…?
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 178 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6587-7593

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In copertina: «Glicine» dipinto dell’autrice


Alessandra Rossetti, dopo il successo del suo primo volume presenta la sua nuova opera «Ti racconto… vuoi…?», un piacevole vissuto di racconti presentato con allegria e nostalgia.
Il richiamo profondo della sua appartenenza a San Giuliano Milanese l’ha spinta ad avventurarsi nuovamente nel campo della narrativa.
Ricordi che fanno sorridere oggi, e si augura di incontrare molte persone sorridenti, occupate a raccontare a figli e nipoti il loro vissuto.

Pittrice, ceramista ex insegnante alla Scuola d’Arte Cova di Milano.

Tenace e decisa si sente profondamente donna ed ama ricordare le fatiche per uscire dal ruolo “regina del focolare”.

Spera che la donna d’oggi faccia tesoro delle faticose esperienze delle generazioni passate.


Introduzione dell’autrice

Il “computer” che è in noi, registra tutto a nostra insaputa e quando passano gli anni, la mente ripropone tutti i ricordi.
Senza tristezza, con gioia.
A me succede così: mi compiaccio, sorrido a tutta la mia vita.
È l’eredità del passato da trasmettere alle nuove generazioni, affinché non vengano dimenticate le nostre radici e le tracce di una cittadella dalle origini antiche, che non ha nulla della storia di questi giorni.
Ho evocato un mondo che mi appartiene e si conclude qui la voce di un tempo, ed il richiamo della mia appartenenza.
Ho, almeno tentato.
…nessuno più si accorge che…
…il campanile della Chiesa è bianco…


Ti racconto… vuoi…?


Ai miei genitori dedico con affetto queste
pagine di storia del paese, dove sono nati
ed hanno vissuto.
Il loro esempio di umile e concreto coraggio
è stato per noi figlie un esempio di serenità,
serietà e fermezza.


Cenni sulla storia di un lontano passato

San Giuliano Milanese fu un centro rurale lombardo.
Volgiamo lo sguardo nel lontano passato in cerca delle sue origini. Ci immergiamo nel periodo “Avanti Cristo”.
Tuffiamoci nella storia remota che, seppure brevemente, ci riporta in tempi lontani, oggi al di fuori della realtà, in una terra ricca di acqua, dove popolazioni antichissime vissero e combatterono.
I fiumi e canali, alquanto numerosi, divennero vie di comunicazione. Il Lambro attraversava la nostra zona fittamente boscosa e con grandi zone paludose.
Gli abitanti vivevano di caccia e pesca, allevando il bestiame e più tardi dedicandosi alla coltivazione del terreno.
Successivamente, ad occupare tutta la Lombardia, chiamata in un primo tempo Insubria, arrivarono una fiumana di tribù provenienti da oltre le Alpi: erano i Celti che i Romani definirono Galli e si stabilirono in Italia lungo la valle del Po.
Travolsero e scacciarono gli Etruschi, rimanendo a loro volta domati dai Romani che si stabilirono nella Comunità di Mezzano nei pressi di S. Giuliano, dove in futuro venne rinvenuta la necropoli, ricordata dalla testimonianza locale come “prato dei morti”.
Questo antico villaggio romano sorgeva lungo il sentiero che correva parallelo alla strada Romana, oggi via Emilia, che i genieri costruirono da Milano a Lodivecchio, passando per i futuri Comuni di San Martino, San Donato, Sestogallo, San Giuliano, la Rampina, continuando oltre Melegnano.
Sulla strada Romana tra S. Giuliano e Melegnano, i romani interessati al commercio, costruirono nel 236 A.C., la Cascina Follazza. Serviva a sviluppare il commercio della lana, prodotta in abbondanza nella zona.
Una grande ruota, oggi non più visibile, immersa nella roggia chiamata “Spazzola” girava dando vita al meccanismo di cardatura della lana; nel secolo successivo divenne il mulino per macinare il grano.
Anche il canale della Vettabbia fu costruito dai romani che partendo da Milano andava a sfociare nel Lambro e che serviva soprattutto per il trasporto delle merci in città.
Col tempo ha perso il suo prestigio ed è diventato un semplice brutto canale.
Anche l’Impero Romano ebbe termine con la discesa dei barbari. I longobardi si insediarono in Lombardia che terminò di chiamarsi Insubria e che appunto si chiamò Lombardia.
Nell’anno 539 circa distrussero quelle abitazioni chiamate Milano, portando strage e rovine in città e campagna.
Ridussero in macerie tutte quelle opere che avevano fatto dell’Insubria una delle più ricche province agricole romane.
Il Cristianesimo si diffuse nelle campagne molto più tardi che nella città, dovuto agli usi legati ai culti pagani. Quando cambiò il loro credo, sorsero cappellette e Chiese per lo più nei medesimi luoghi dove si svolgevano un tempo gli antichi riti.
Durante questi cambiamenti nacquero le Chiese di S. Donato e S. Giuliano; poste ambedue su una grande via di comunicazione e perciò facilmente raggiungibile dai Prevosti e Vescovi fuggiti da Milano di fronte all’invasione distruttrice dei barbari. I Cristiani più tardi si organizzarono e sopravvissero ai soprusi e alle vendette.
Nacque in quel periodo l’Abbazia di Viboldone, vero gioiello d’arte.
Sorsero anche piccole Chiese campestri a Bolgiano, Zivido, Carpiano, lontane dai luoghi abitati e che verranno riedificate in epoche successive quando i contadini costruirono piccoli gruppi di case.
Col tempo, l’importanza assunta dal luogo, dove venivano celebrati i servizi sacri ad una più vasta comunità, nasce la necessità di erigere attorno alla Chiesa un piccolo centro abitato che prende il nome del Santo Patrono della Chiesa stessa: San Giuliano.
Così nacque il nostro paese.
La sua popolazione era minore di quella degli altri abitati circostanti, ma la sua posizione era avvantaggiata e più tardi il suo dominio si estese ed arrivò a comprendere gli attuali Comuni di Melegnano, Cerro al Lambro, Mediglia, San Martino Olivario, Carpiano, Colturano, Balbiano, Vizzolo, Zivido al Lambro, Bascapé, Landriano.
I maggiori proprietari di fondi posti in San Giuliano e dintorni furono le famiglie illustri: i Visconti, i Brivio, i Meraviglia e gli Sforza.
Per un lungo periodo S. Giuliano dovette sottostare all’impietosa sorte delle continue guerre che sconvolsero il suo territorio; il paese si trovava affacciato sulla grande strada di comunicazione: la via Romana, ora via Emilia, che dava la possibilità agli opposti eserciti di transitare.
In quegli anni furono costruite due fortificazioni di guerra, relativamente vicino al fiume Lambro: la Rocca, oggi Rocca Brivio nei pressi della cascina Rampina, ed il vecchio castello di Melegnano. Fatti successi all’incirca nel 1270.
Con il passare degli anni gli avvenimenti precipitarono.
Il susseguirsi di guerre e di dominazioni impoverì gli abitanti per lo più contadini.
Iniziò la battaglia per la conquista del Ducato Milanese, combattuta tra i francesi guidati dal Re Francesco I ed i mercenari svizzeri chiamati da Massimiliano Sforza.
Da tempo i francesi per antichi diritti sognavano di possedere il Ducato Milanese.
La marcia dei francesi divenne travolgente. A Milano giunsero migliaia di soldati svizzeri pronti a controbattere la loro avanzata decidendo di accamparsi a San Giuliano.
La fine della feroce battaglia, definita “la Battaglia dei Giganti” per la forza e l’impegno degli svizzeri, si concluse con la vittoria dei francesi.
I morti non si poterono contare: gli svizzeri si ritirarono sconfitti lasciando sul campo tutti i giovani immolati per interesse altrui. Questa battaglia, senz’altro la più sanguinosa per quei tempi, segnò la fine di un’epoca.
La sconfitta portò gli svizzeri a vietare l’uso dei soldati come truppe mercenarie.
Da quel momento iniziò l’epoca della neutralità svizzera futura. Ad Occhiò molti trovarono la loro tomba. Altri furono deposti nell’Ossario di Mezzano.
A Zivido, davanti alla Chiesetta, fu eretto un cippo ricordo, sopra la fossa che conteneva parte dei resti mortali dei soldati.
Per un lungo periodo S. Giuliano dovette sopportare i disagi procurati dalle continue guerre.
Sopportò anche la peste, terribile malattia medioevale.
Anche Giovanni Galeazzo Visconti, Signore di Milano, sopperì, malgrado le precauzioni per debellarla che egli poté concedersi.
Col passare degli anni le dominazioni si susseguirono: gli spagnoli prima, gli austriaci dopo.
Durante questo periodo la maggioranza della popolazione formata dalla borghesia rurale e dai contadini subì discriminazioni rispetto alla classe privilegiata dei nobili.
Miserie ed ingiustizie produssero un gravissimo stato di malessere e di tensione.
Guerre di successione e nuovi padroni: gli austriaci.
La rivoluzione iniziò nel 1848 e proseguì per gli anni successivi. Importanti le Cinque giornate di Milano: scacciarono gli austriaci ed anche San Giuliano partecipò al governo provvisorio.
L’unione delle forze portò verso l’unificazione dell’Italia.
Molte cose cambiarono: la ricerca iniziò con l’insegnamento scolastico affidato ad Ecclesiastici presso l’Abbazia di Viboldone e diverse scuole rurali sorsero anche nelle frazioni e nelle cascine, sostituite poi dalle normali scuole elementari.
Il secolo Ventesimo vedeva San Giuliano in continua crescita; raddoppiò il numero degli abitanti. Nel 1911 venne inaugurato il ponte in ferro sul Lambro, che congiungeva S. Giuliano a Mediglia.
Il quieto mondo costruito sull’emarginazione politica dei contadini e degli operai si spezzò dallo scoppio della prima guerra mondiale voluta dalle grandi potenze europee.
Anche l’Italia fu coinvolta ed il 24 maggio 1915 i soldati partirono per conquistare Trento e Trieste.
San Giuliano pianse molti suoi giovani cittadini.
Nel 1920 nascono i primi Fasci di combattimento; si organizza la Marcia su Roma ed ha inizio il ventennio fascista.
Tutto quanto è successo poi è storia recente che tutti conosciamo per averla vissuta. A fatica San Giuliano risorse dalle macerie morali e materiali di un altro conflitto mondiale durato dal 1940 al 1945.
Due case e una Chiesa dei tempi remoti danno vita ad un piccolo centro agricolo che diverrà la cittadina industriale dei nostri tempi.


Memorie

“Al mio paese nevica,
il campanile della Chiesa è bianco”.

Ricordo vivo, indimenticabile.
Tutti i giorni all’imbrunire suonava la campanella, era il consueto richiamo per la recita del Rosario.
Il cielo bigio, dolce.
Un silenzio ovattato avvolgeva tutto come se il mondo si fosse fermato. Atmosfera magica per noi bambini.
Camminare sulla neve, caduta tutto il giorno, fattasi alta, copriva ogni cosa.
La piazza antistante la Chiesa Parrocchiale creava una visione magica. Per arrivare dovevamo percorrere la via Piave che terminava in piazza della Vittoria.
Il monumento posto al centro, eretto a ricordo dei caduti della grande guerra 1917/18 rappresentava un soldato con la bandiera ondeggiante al vento.
In quell’atmosfera non sembrava più una statua.
Di metallo scuro, forse bronzo, cosparsa di neve, ricordava un fratello, un figlio, un padre, pronto a sacrificarsi per la Patria. I loro nomi figuravano ben visibili su ogni lato; quel soldato sembrava muoversi e noi istintivamente lo salutavamo con grande rispetto.
Sulla strada che portava alla Chiesa, prima di arrivare al monumento, alla nostra sinistra, troneggiava una grande ruota per metà affondata nell’acqua di una roggia chiamata in dialetto “Spassöla”.
Apparteneva al mulino della zia “Milia”.
Persona autorevole, un po’ arcigna che, giustamente, non ci permetteva di giocare fra i sacchi colmi di farina come noi avremmo voluto.
Il nostro piccolo gruppo di amici la chiamava zia, anche se di nipote lei aveva solo Velia, una nostra amica appartenente al gruppo.
Affezionatissima alla mia famiglia, Velia, rimaneva parecchie volte a pranzo con me e mia sorella. Lei era figlia unica ma sembravamo tre sorelle. Esigeva abiti uguali ai nostri e per evitare capricci sua mamma l’accontentava.
Abitava di fronte a casa mia, al primo piano; correva a casa soltanto quando la sua mamma alla sera chiamava e per farsi ubbidire gridava dalla finestra “Riva el papà”.
Solo così Velia correva a casa. Un papà importante, gentile ma severo.
Nello stesso fabbricato abitava un uomo che a noi bambini appariva vecchio. Era il più anziano del paese.
Figura caratteristica, sapeva raccontare fatti che per tutti i compaesani erano già entrati nella storia.
Si distingueva per la sua generosità e per il suo abbigliamento. In ogni stagione portava sempre i pantaloni lunghi con la gamba destra arricciata fino al ginocchio.
Fu il primo “capo dei pompieri”.
Quando nelle cascine fuori paese scoppiava l’incendio, gli abitanti venivano avvertiti dal suono particolare della “campana a martello”.
”El ziu Pep”, così tutti lo chiamavano, partiva con la sua carretta spinta a mano per coordinare il lavoro di spegnimento.
I più anziani del paese lo chiamavano anche “el bagatin” che significava “piccolo calzolaio” perché questo era il suo mestiere. Era stato il calzolaio delle famiglie più importanti del paese, compresi i Prevosti.
Anche le rogge, abbondanti nelle campagne, con le acque limpide e pulite, attiravano la sua attenzione.
“El ziu Pep” con gli stivaloni o a piedi nudi anche nei giorni più rigidi, andava a pescare con tutti i mezzi possibili, ma preferibilmente con la rete; qualche volta di notte anche con le mani.
In modo particolare quando all’alba entrava nel bordo delle “marcite”: campi coperti d’acqua. Anche d’inverno l’acqua faceva crescere rigogliosa l’erba che serviva per il foraggio degli animali.
“El ziu Pep” prendeva le rane che saltellavano nell’acqua. Cibo prelibato per i più poveri. Specialità culinaria: “la fertada cui ran”.
Dove era situata la ruota del mulino, la roggia o meglio la “spassöla” si allargava e l’acqua occupava uno spazio più grande e più profondo.
Noi bambini avevamo paura e con attenzione ci appoggiavamo al parapetto a cercare con lo sguardo i pesci che guizzavano nell’acqua limpida del “tumbon”.
Questo succedeva in primavera, quando gli incaricati del Comune eseguivano la pulizia della roggia. L’operazione veniva chiamata “la sücia”. Era una grande festa per noi.
Andavamo sempre a vedere “el tumbon” con poca acqua dove i pesci e le anguille si rincorrevano irrequieti e la grande ruota era ferma.
Il primo a scendere era “el ziu Pep”; andava a pescare, seguito da qualche suo amico.
Per parecchi anni, oltre a fare il ciabattino, fece anche il fattorino che andava alla stazione del treno a ritirare la posta per portarla in sede per la distribuzione.
Un incarico che gli conferiva una certa importanza.
La sua abitazione si trovava a piano terra, nel palazzo di Velia e di fronte a casa mia, in via Piave.
Aveva una porta a vetri, aperta d’estate e chiusa d’inverno, che lasciava intravvedere quell’ometto seduto, davanti al suo banchettino dal mattino alla sera, con l’immancabile grembiule lungo fino ai piedi, intento a rattoppare le scarpe.
Soffrì molto quando vide abbattere la sua vecchia casa e la grande ruota. Scrollava il capo con disapprovazione. Lì aveva trascorso tutta la sua esistenza.
San Giuliano iniziava la distruzione del suo passato.
Ci lasciò a 91 anni.
Con lui si spense una figura caratteristica della vecchia San Giuliano. Noi bambini, divenuti adulti, perdemmo un amico.
“Dal tumbon” la “Spassöla”, coperta per far posto alla strada che portava alla chiesa, proseguiva il suo cammino a cielo aperto, passando di fianco al palazzo del Municipio, dove alcune stanze erano adibite a scuole comunali.
Un muretto nel cortile, un cancelletto, qualche gradino rappresentavano per noi alunni una continua tentazione proibita: scendere a bagnare le mani e i piedi d’estate in quell’acqua limpida ed invitante.
La mia casa si trovava a fianco della scuola, ma al di là della “Spassöla”.
Il mio cortile confinava con l’acqua limpida che scorreva e lambiva le radici di un magnifico albero di glicine, messo a dimora da mio nonno prima che io nascessi; bellissimo durante la fioritura.
Alla fine delle lezioni, all’uscita della scuola, mia mamma era sempre vicino all’albero e vedeva sempre tutto.
I bambini scendevano a toccare l’acqua. Una mia disubbidienza avrebbe avuto conseguenze spiacevoli.
Uscita dal paese, la “Spassöla”, proseguiva il suo cammino a fianco della via Emilia.
Raggiungeva Cascina Follazza dove vi era un’altra ruota leggermente più piccola. Faceva funzionare un altro mulino.
Era solo una roggia la “Spassöla”, ma aveva la sua importanza. Apparteneva alla vita del paese.
Proseguiva il suo tragitto fino alla “Rampina” posto di ristoro per i “careté” che venivano dalla bassa con il carro trainato dal cavallo, carichi di frutta e verdura per la vendita al grande mercato di Milano.
Le sue acque limpide scorrevano fino a Melegnano per gettarsi nel Lambro dove “el ziu Pep” andava a pescare.
La Rampina esiste tutt’ora, la “Spassöla” no. Divenuta un ristorante tipico alla moda, continua ad offrire piatti prelibati.
La “Spassöla” è asciutta e piena di erbacce. Irriconoscibile.
Sono rimasti solo il ricordo ed il rimpianto.

[continua]


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