Le memorie di una strega

di

Alessandra Crabbia


Alessandra Crabbia - Le memorie di una strega
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 140 - Euro 12,00
ISBN 978-88-6587-1577

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In copertina: «L’attrazione» dipinto di Ale Crabbia
(Acrilico – tempera, 50×70, collezione Lorella Frescura)


Prefazione

Solo quando hai squartato il tuo cuore, solo quando hai ondeggiato sulla linea di confine tra l’Essere ed il Nulla senza possibilità di salvezza e ti sei giocato la presunta sostanza dell’illusoria vita… solo dopo tutto questo lacerante e divorante, inesorabile, divenire/sparire, si può capire ciò che sto scrivendo, accompagnando la mente di colui che legge nell’universo dannato/beato di Alessandra Crabbia.
Vi sono parole così brucianti che non sono per tutti: è inutile dannarsi l’anima.
Dal trono del settimo cielo si può vedere un angelo decaduto, intorno si muovono creature infernali, e un angelo bellissimo cavalca un mostruoso dragone infernale: non esiste cosa nascosta. Che questo sia il riassunto d’un libro può essere pura follia.
Raccontare ciò che si è, ciò che si vorrebbe essere, ciò che si è sognato di incarnare, significa essere creatura pulsante che si azzarda a cercar linfa vitale nella quotidianità sterile dell’esistenza: privilegio concesso a pochi.
Tra incantesimi e malefici, la cenere dell’antico rogo disperde le illusioni, le ingenue certezze e le possibili infinite verità: il vento sinistro aleggia sulle memorie di una strega.
Nella vita avventurosa, Lei ha sofferto, ha lacerato la sua sostanza nell’esplorazione continua, ha vissuto il tormento ma, in fin dei conti, è sempre stata alla ricerca dell’amore primordiale.
L’unico comandamento, inciso sulla pelle e marchiato a fuoco nell’anima, è sigillo senza tempo: vivere con un’infinita tensione interiore tale da sentirsi “morire di vita”.
Nel regno dei sortilegi, non v’è scampo: o si odia a morte o si ama alla follia.

E Lei, è Carnale, Ironica, Brutale: la bellezza feroce e multipolare si manifesta nel corpo di donna con una vipera tra gli artigli. E Alessandra Crabbia sa molto bene che la vita è crudele: come figlia prediletta nel suo furore, come donna sfrenata mentre danza la sardana.
Ecco allora che Nigra Antares, narra se stessa, si espone in piena libertà.
La nonna Morena le insegnò molto bene la magia e, poi, le insegnò alcune cose della vita.
La madre Dana era una strega.
Il padre Alejandro era un alchimista e sognatore.
Il primo amore fu Robert Guitar. Il secondo amore Andrea Volante e con lui nacque l’amata figlia Vega, carne della sua carne. Il terzo fu Diego, bello e sensuale, che divenne suo marito: l’unico uomo veramente amato, «l’unico che le ha insegnato il vero amore».
Lei, Nigra Antares, il giorno sei del sesto mese dell’anno, aggredisce tre uomini e ne uccide tre: sei uomini. Il codice è chiaro. Tutti se lo meritavano: deve essere condannata o assolta.
Nessuno è reo, nessuno è innocente.
È inutile la condanna perché le streghe sono immuni alla vita come alla morte.

Alessandra è creatura inafferrabile ed indecifrabile, regina del sabba e miserabile nella danza licenziosa della zarabanda; il suo spirito è energia che pare trasportata dal vento del ghibli e, con le sue mirabolanti evoluzioni e con i suoi miracoli narrativi, conduce nella grande illusione, in una costante immersione nel liquido di una probabile pozione magica.
Alessandra è creatura selvaggia e scrive in modo fauve: un salvacondotto che la metta al riparo da se stessa.
Come serpente che scivola tra la sostanza della vita, con il suo sangue scrive ciò che si genera nella sua mente dopo essere stato iniettato nel profondo del cuore; colpevole solo di essere libera nel suo pensiero perché “vi sono persone, uomini e donne, che possono appartenere solo a se stessi”.
Lei confessa che «ogni strega ha dentro di sé una roccaforte medievale irriducibile» e io ricordo che il calvinismo denunciava «ogni felicità come peccato».
Le illusioni della magia, le prediche che vorrebbero condurre alla gioia e l’esaltazione folle che conduce sempre al cammino nella sofferenza, diventano inutili: la guarigione non esiste.
Angelo e demone sono figure che finiscono nella polvere del tempo.
«Lo spirito che ho visto può essere un diavolo, e questi ha potere di assumere un piacevole aspetto…». Umilmente, Shakespeare.

Massimo Barile


Due parole dell’autore

Chi mi ha già letto, non troverà in questo libro alcuna somiglianza con gli altri miei romanzi, nè per stile, nè per affabulazione.
Perché se nel passato cercavo inconsciamente di non piacere al mondo, pur di dichiarare le verità più scomode, oggi scrivo solo per la gioia amara di scrivere.
Non sono una scrittrice allineata.
Niente è mai stato allineato nella mia vita.
A dire il vero non so nemmeno se sono una scrittrice, anche se c’è scritto sulla mia carta d’identità.
Non amo definire nessuno, meno che mai me stessa.
E ne sono terribilmente fiera.
In questo romanzo nessun personaggio ha una connotazione chiara e visibile: ho seguito una sorta di zen per togliere a me stessa e al lettore ogni possibilità di giudizio e opinione.
Non ho una vita sociale e quindi mi scuserete se la gradazione di tono del mio libro è quella di un eremita.
Sono e resterò sempre la stramba del villaggio.
Scendo a patti con il mondo solo per la pagnotta, e non sempre è facile.
Il problema di una che scrive è lo stesso di Basquiat: non accettavano un pittore nero così come non accettano una donna out-sider che scriva solo per il piacere di raccontare.
Questo libro vuole dimostrare, mescolando tempi, luoghi e personaggi, in una follia compatta, che so scrivere esattamente come non piace ai critici, in modo squisitamente ordinario.
Perché non amo la perfezione che ingabbia, ma la spontaneità che libera.
Ho lottato con la rabbia, scrivendolo, ma fortunatamente i contenuti sono sempre dalla mia parte.
Non ho mai scritto nulla che non sia autobiografico, e confermo che «Le memorie di una strega» trae ogni spunto dal mio vissuto.
Ringrazio due poeti, Vasco Rossi e Jacques Prévert, che hanno sempre dato ispirazione al mio pensiero, entrambi del segno dell’acquario, ribelle e splendidamente esistenzialista.
Molti troveranno questo accostamento di due grandi artisti, insolitamente azzardato.
Ma l’azzardo è il mio pane.
Quindi, amici miei, abbiate la pazienza di andare fino all’ultima pagina, perché solo allora il senso di ciò che ho scritto vi sarà chiaro.
E se non lo sarà, non è grave: è solo un libro in più che avrete letto, da buttare al volo nel bidone.
Fate centro: porta bene.
Adelante, amigos! Inizia la fiesta.

Ale Crabbia


Le memorie di una strega


«I need your love so badly.
I love you so madly.
But I don’t stand a ghost of a chance with you.»
(Billie Holiday)

«L’amore per un uomo non esiste.
L’amore le donne se lo inventano».
(Proverbio messicano)

«Ogni dolore ha il suo valore.
Ogni piacere ha il suo dovere».
(Proverbio bolognese)

«Ci si affeziona anche a un cane che morde:
è il segreto degli amori sbagliati».
(Alessandra Crabbia, “Manuale del disperato”)

«Come stai? Ti distingui dall’uomo comune?
Ti piace vivere come sei? E rispondi solo a te?»

«Perché la vita è un brivido che vola via,
è tutto un equilibrio sopra la follia.»

«Al diavolo non si vende: si regala.»
(Vasco Rossi, Canzoni)

«Allora (i santi), fanno il pieno di benzina divina,
partono di nuovo
e se ne vanno sempre più in fretta
per arrivare sempre meno lontano.»
(Jacques Prévert, poesie, Si sa mai?)

«È giusto vendicarsi? Non vendicarsi
fa male tanto quanto vendicarsi»
(Anonimo, Quaderni.)


A Diego, mio marito, che ha soggiornato
sul pianeta terra per trentaquattro anni,
vivendo pericolosamente.
A lui va tutto l’amore che mi ha insegnato.


Premessa

Eccomi.
Sono io, Nigra.
Anzi siamo noi.
C’è anche il mio furetto ammaestrato, Pentacolo.
È lui che mi porta le vibrazioni delle parole dette all’esterno di questa cella in cui mi hanno rinchiusa.
La mia gabbia è a levante, perché i religiosi credono che i criminali accusati di stregoneria e occultismo, debbano patire molto vedendo il sole che nasce.
Idioti! Ogni mattino lo attendo estasiata aggrappata alle sbarre.
E mi chiederete se sono colpevole o no.
Non ve lo so dire.
Tante volte me lo sono chiesta anch’io, ma in realtà questa dimensione è talmente ambivalente che tutto sfuma in una somma contraddittoria di giudizi parziali e sindacabili: per la mente umana non c’è spazio per la nitida interezza di giudizio.
I pro e i contro, la parte chiara e oscura della luna, ingannano gli umani e li sottomettono alle leggi di una dualità che perde di vista le ragioni più occulte degli eventi.
La reale giustizia è solo un concetto dell’ego umano: la vita non ha tempo per queste quisquilie.
La vita in se stessa è ingiusta, e per la presunzione umana di proclamarla, si fanno guerre inique.
Sono qui per dire il vero.
Sono qui per bruciare la spazzatura della mente con la santa verità.
La verità che nessuno vuole.
Quella che tutti nascondono.
Quella che dopo una vita falsa e farisaica, cade veloce e limpida come una mannaia.
Ma è troppo tardi per molti quando il vero si rivela.
Non c’è più il tempo di riacchiapparlo: si crepa urlando per l’errore e l’orrore di aver deformato la propria esistenza, di averla deviata solo per non aver pensato con la propria testa, ma con quella della società gregaria, ipocrita, miope, avara e programmata.
Vivere una vita di merda è il più gran delitto che si possa fare.
E poiché tutta la società ti invita a sprecare la vita, bisogna inventarsela in un atto creativo, di sovrumana forza e bellezza. Diventare esseri umani decenti significa accettare la disillusione e l’amarezza della precarietà del vivere, e pulirsi il cervello dal pattume che ti propinano da quando sei nato: in altre parole essere se stessi nell’unicità stupefacente del nostro percorso.
Ve lo dice una strega, che vi parlerà d’amore, uomini, prigionia e disastrose illusioni.
Come ogni mattina apro gli occhi e sempre mi stupisco di esistere, di essere precipitata da chissà quale folle dirupo e aver preso vita, codici, linguaggio, simboli nell’universo umano.
E sento di possedere un corpo fisico con sorpresa indicibile, braccia, tette, pancia, viscere, faccia da lavare, qui in questa cella due metri per tre, dove mi hanno imprigionata, perché non c’era altro modo per farmi sparire dal mondo e farmi tacere. Non vi dirò il nome vero del mio paese, perché è uguale al vostro: ogni luogo dove vige l’ignoranza è lo stesso.
Cambiano i nomi, ma la sostanza è la medesima.
È da sempre la tragedia della vita, quella che determina il male di vivere.
Da poco sono andata oltre la consapevolezza, raggiunta dopo aver buttato tutte le zavorre sociali, e quando si oltrepassa questo limite, non si può più avere una vita sociale normale, non si riesce più a stare con tutta la gente, perché i piedi scalpitano sotto la sedia, e vien voglia di prendere a pugni qualche imbecille e di tornare a casa a fumare sul divano ascoltando Chopin con i piedi per aria.
Si riesce solo a frequentare la brava gente, rappresentata da cani, gatti, vecchi, ubriaconi, neonati, analfabeti, sordomuti, barboni e artisti solitari.
Poso per terra le mie gambe secche e m’infilo i jeans tutti stracciati, e alzo le spalle con uno scatto selvatico ed elegante, perché sono ancora qui e viva, e la mia mente è ancora limpida come quando correvo le mattine d’estate nei miei boschi insieme a cervi e volpi.
So di essere invecchiata con grazia e con delizia, così m’infilo l’anello d’argento al naso, e riappaio.
Ho detto che sono entrata nella vecchiaia con delizia.
Una grazia soffice, candida, offerta al tempo come il lino di un vestito da battesimo.
Una grazia compatta, stregata, scarna, disincantata e piena di meraviglie come il viso di una bambina che danza assorta davanti allo specchio.
Il corpo carnalmente sontuoso della giovinezza, pieno di tensione ardita e triste, si è ritratto da se stesso e si staglia come un albero dalla solida corteccia nel paesaggio aspro e frenetico della mia vita.
È un corpo essenziale, con il solo eccesso del mio seno arreso e materno che molto ha allattato con amoroso furore Vega, la mia unica figlia, carne della mia carne e anima della mia anima.
È un corpo che rivela che non diventerò mai adulta.
Ma la mia faccia tonda si è invece frantumata: ho il viso di una neonata invecchiata per chissà quale oscuro incantesimo.
È un volto da india, smaccatamente improvvido e sensuale: carnale, ma ironico e brutale nel suo cedimento ruga per ruga.
La mia è una bellezza feroce, vecchia, ma talmente evidente che mette a disagio.
Da giovane la mia bellezza acerba è stata abusata, maltrattata, e gettata via dagli uomini.
Molti hanno usato il mio corpo, molti mi hanno abbandonato in un cassetto polveroso, altri mi hanno mentito deliberatamente, alcuni mi hanno gettato fuori di casa in una mattina di novembre, senza stile, senza pietà alcuna, per far posto alla prossima preda, più esigente, più astuta, più vistosamente nuova.
Confesso di non aver mai avuto il carattere giusto per nessun uomo.
C’era sempre in me, come forse in tutte le donne, una gran fatica a sopportare di diventare scontata.
Da vecchia mi hanno cercato di nuovo invano.
E senza ritegno, ho visto questi estranei bussare dopo anni alla mia porta, con le borse violacee e rugose sotto gli occhi avvelenati, la pelle cruda e viziosa, la pancia alcolica, i crani in preda alle calvizie, gli sguardi acquosi, i denti falsi, le sopracciglia grigie e cespugliose, a chiedermi quell’amore che essi stessi avevano tradito, calpestato, malmenato, a causa della mia natura bizzarra e selvaggia, che non scende mai a compromessi con i sentimenti.
Si erano accorti troppo tardi di desiderare allo stremo ciò che non avevano mai voluto da me.
Rivolevano indietro ciò che avevano gettato via per disattenzione.
Ed io ho provato solo pietà struggente buttandoli fuori a calci: erano stati belli, bellissimi e vincenti, ma il loro corpo sfatto rivelava la loro mente volgare.
Nel tempo, la mente fa quel che vuole del tuo corpo, lo accudisce o deforma conformemente ai pensieri che produci, e se sei brutto e ripugnante, te lo meriti.
Solo il tempo decide se sei realmente bello o no, dentro e fuori.
È uno specchio inesorabile, che cancella i privilegi di nascita se sei un imbecille, e aumenta la tua sfacciata fascinazione, se sei meraviglioso.
Ma il mio è un pane nero semplice e povero, che dura nella dispensa della vita, e profuma sempre.
Io sono un pane anomalo, lievitato lentamente, ma gettato distrattamente in un forno grossolano e arrugginito: gli uomini hanno preferito altri pani bianchi, comuni e immediati, veloci e attraenti.
Non hanno saputo aspettare il mio compimento, non hanno avuto l’olfatto giusto per la fragranza soave e rustica della mia crosta.
Hanno perso l’occasione di nutrirsi del mio pane innocente e puro.
Ed è giusto così, perché il mio pane appartiene all’essenza divina cui appartengo.
Il mio pane non doveva essere mangiato che da me: io non potrò mai essere di nessuno.
Nessun uomo può più volermi, nemmeno per una scopata, perché sente che conosco tutti i trucchi, tutte le meschine mire di chi grida a gran voce un amore insolente, un amore che non è mai stato amore, perché inconsapevole.
La realtà è che raramente un uomo può amare per sempre, perché è un inseminatore.
Mia nonna paterna era solita dire che all’inizio siamo tutte donne, che la matrice universale è femmina: l’aveva notato dalla crescita delle sue erbe.
Io allora non lo sapevo, ma questa è ormai una verità scientifica inconfutabile: all’inizio tutti gli embrioni sono femminili, e solo dopo alcune settimane si sviluppa una mutazione cromosomica, che attribuisce alle femmine mancate il pisello.
Ergo, gli uomini sono dei mutanti.
Deviano dalla matrice pura per diventare degli ibridi, sottoposti alla necessità della natura di farne degli inseminatori del sesso primario, quello femminile.
Da ciò ogni spirito arguto deduce che ogni mutazione, per quanto naturale e volta alla sopravvivenza della specie, richiede al mutante un sacrificio, una perdita del sé autentico.
Del resto, noi creature senza pisello, non abbiamo sempre i nervi saldi, e per arrivare al dunque facciamo mille girotondi del cuore, cambiamo idea di continuo per le violente oscillazioni delle nostre maree fisiche e interiori.
La società è sessista: nessuno è veramente uomo o donna.
Siamo tutti degli umani, oltre ogni ragionevole dubbio.
E bisogna ricordarsi sempre che quando una donna ha l’ossessivo bisogno di sventolare tette e culo sotto il naso altrui, non è poi così sicura della sua femminilità.
E un uomo che gonfia sempre i muscoli e alza la voce come un tacchino, non è poi così sicuro del suo pisello.
Le femmine mancate, nascono quindi maschi, e acquistando il pisello, diventano, come vuole la struttura dell’organo stesso, volte all’esterno, al potere, alla penetrazione violenta e rapace del mondo empirico: si trasformano in uomini, che finito il coito, si tirano su le braghe e partono per le loro guerre private o civili, e ti lasciano ad aspettare i tuoi nove mesi sognanti e acquatici, fino a quando, una notte, ti scoppia il ventre e nello strazio del parto, urli e smani, finché ecco, dalla tua matrice esce un nuovo uomo.
Quale uomo sopporterebbe una sorte così torturata per il solo attimo di piacere di un amplesso?
Nessun uomo sopporterebbe di essere gravido e di patire un dolore così alto.
Di stare lontano dalle sue battaglie per nove lune.
Un uomo che avesse il destino di partorire, si farebbe infibulare prima.
Lo scrivo senza odio, senza note femministe: questa è realtà, e dovrebbe far capire a una donna il suo valore intrinseco, sempre occultato e perfidamente sottovalutato dal mondo, che teme questo carisma come la morte e le tasse.
Eppure, come sono belli questi maschi, piatti e lineari, con i loro toraci sudati e abbronzati, le loro gambe nervose e scattanti, le loro schiene lucide sotto il sole, i loro abbracci impetuosi e i loro sguardi pieni di oscuro desiderio!
Quei pettorali che ti accolgono violenti, quelle braccia muscolose che torcono la vita, quei glutei duri come il marmo, e le loro mani forti, arcuate, prensili!
Quei loro gesti poderosi e negligenti, quella forza nelle reni che ti piega e ti toglie il respiro!
Sono belli questi maschi rudi, teneri, torturati, con quelle loro mezze parole che dicono tutto.
Quanto ho amato il fascino brutale degli uomini!
Peccato, peccato davvero che a tanta asciutta bellezza non corrispondano un’eguale attenzione e costanza: ma non si può avere tutto.
Ho molto amato invecchiare: in questo ho trovato la mia immortalità, perché mi fa sentire onnipotente come la Grande Madre, la natura, unica dea in cui credo.
Perché io sono un paese da sempre in guerra, che gode ora di una tregua lenta e stupefatta, qui in questa cella dove vivo l’ultima grande avventura, nell’attesa della mia morte designata.
Vieni, Pentacolo, mio furetto amico, sali sulla mia spalla e dammi la tua magia.
Ho fatto del dubbio la mia fede granitica e scanzonata, della mia povertà il mio orgoglio dignitoso, del mio talento uno spettacolo occulto da mostrare solo dietro le quinte, del mio vedere il futuro un gioco paradossale, della mia maternità un capolavoro bellico, del mio esser strega un paradigma di onestà intellettuale, del mio parlar con i morti una saggia compagnia vitale, della mia famiglia sciagurata un archetipo mitologico che invento giorno per giorno, perché la verità è che non ho mai avuto una famiglia, l’ho solo sognata e inventata con tortura per tutta la vita.
Che sono Bruja, sciamana, si sa: ci sono nata come mia madre e mia nonna, morte tutte e due, una impiccata dagli sbirri e dai preti, l’altra di fame, per proclamare il suo dolore e la rabbia indignata.
Io sono sempre stata pazza d’amore.
Per questo morirò.
Per questo scrivo.
Perché chi non è pazzo d’amore, non ha questo desiderio avido e inesausto di raccontare la vita, la morte, il fuoco nel ventre, il coraggio, la lotta, il patimento.
Chi non è pazzo d’amore, non sa essere nudo, di una nudità accecante e spudorata, solida come un diamante e tenera come un petalo.
Chi è pazzo d’amore, è condannato alla solitudine.
Ogni eccesso si paga.
Mi fisso e la mia folle identità esplode allo specchio, unico lusso concessomi in galera.
È l’unico privilegio che ho chiesto agli sbirri: hanno creduto che fosse per vanità, gli ignoranti.
Non sanno che una sciamana non può vivere senza uno specchio che rifletta i suoi incantesimi, o semplicemente faccia ripiovere in faccia ai vili la loro stessa malvagità.
Il mio processo avverrà con la luna nera nel segno dello scorpione.
L’ho visto nei miei sogni.
Ho rifiutato l’avvocato d’ufficio: sarò io il mio difensore.
In aula ci sarà Vega, mia figlia, che ha il dono dell’olfatto: è una strega degli odori, perché prevede il futuro fiutando le cose e le persone.
La sentenza sarà la morte: questo è già scritto nel destino fin dalla mia nascita.
Seguirò la stessa sorte di mia madre.
L’avevo già letto fin da ragazza nelle pieghe delle mie mani, nelle mie visioni con i funghi, nei miei tarocchi consumati e sfolgoranti di luce oscura.
Non ho mai avuto paura.
Non sono mai stata di questo mondo, sono sempre vissuta ai confini.
La morte mi è amica: molte volte abbiamo giocato a scacchi, ed è un’avversaria leale.
Perché io sono colei che ha visto quelli che non sono mai tornati: quelli che hanno tirato le cuoia, intendo; quelli che spariscono e marciscono, ma ogni tanto vengono a prendere una boccata d’aria, senza dire mai quale passaggio interstellare hanno usato.
Sono colei che legge i segni degli eventi, che a un odore o a un brivido vede oltre la cortina del presente, sono colei che è stata bruciata per cento volte, ma che non può vivere senza il fuoco, l’estasi, la stonatura, le frontiere più improbabili, le passioni più incontrollate e il viaggiare sempre contro tutto ciò che è banale o mitico o osannato dagli idioti del gregge.
Sono la senza dio, la senza dogmi, vivo solo per vivere.
Dichiaro di essere contro quelli che comandano, e ti dicono cosa devi mangiare, come ti devi vestire, cosa devi desiderare.
Come devi amare, come devi essere vincente: e ti fanno diventare un essere indecente, snaturato, pieno di sensi di colpa, di sconfitte, di tabù, di dogmi, di nevrosi, di idee fasulle, di attese di miracoli di un dio peraltro assente.
Quello che ho scoperto scivolando docile nel gran pozzo della vita, è che solo le forze dell’universo sono attive, bellissime e feroci, terribilmente ingiuste nella loro somma giustizia.
Quel po’ che ho capito nella mia esistenza ormai consumata, piena di picchi e abissi inenarrabili, è che si deve essere completamente tutto ciò che si è: e in culo al mondo intero.
I politici, i preti, i militari e i ministri di ogni stupido culto, sanno fare il loro sporco lavoro su di te, questa è la causa originaria dell’infelicità umana: solo i ritardati e i palloni gonfiati detengono il potere sul popolo.
Non potrebbe essere altrimenti, perché nessuna persona sana e illuminata si prenderebbe mai la briga di sedersi su uno scranno e sparare dogmi e assiomi imbecilli e aleatori, imponendo agli altri di vivere secondo questi dettami distorti e confutabili, condannandoli a un’infelicità senza limiti e derubandoli della loro stessa vita.
Sanno quanto sei fragile e devono controllarti, perché prima o poi potresti esplodere e distruggere il loro merdoso universo pieno di luoghi comuni, di norme obsolete, di regole imbecilli messi in atto per togliere da te ogni naturale bellezza, animalità sana, gioia irrefrenabile.
La mia arte è la pura magia di sopravvivere in un mondo stravolto, capovolto, pieno di idiozie, un mondo nel quale si fa della violenza un mestiere e della bontà un vizio.
Un mondo nel quale gli uomini non capiscono che quando finisce l’amore di pancia dovrebbe cominciare l’amore del cuore: e invece girano come muli bendati tra cosce, tette, culi diversi per sentirsi nuovi, maschi, frenetici, per poi sentirsi vuoti e disperati.
Chiediamo troppa sensibilità agli uomini: vogliamo cambiarli, trasformarli in qualcosa che è contro la loro stessa natura.
Per questo si ritraggono storditi da noi: perché non li accettiamo così come sono.
E le donne girano come mule bendate cercando in un povero maschio deboluccio e disorientato la loro ragione d’essere, il significato della loro vita oscura, la risoluzione all’infelicità e al cronico terrore di affrontare se stesse a nudo.
Tragico errore perpetuato dal fatto che ti abituano a pensare che sia quello il vero amore, il fine ultimo.
Beh, non è per niente vero.
È altro che un essere senziente deve cercare.
E cioè la propria forza.
Perché la vita è crudele nella sua essenza.
I mistici impiegano tutta una vita a cercare dio, per poi accorgersi alla fine che non esiste.
E dicono che dio è l’eterno dell’amore, e la sua creazione lo riflette.
Ma su questo pianeta stralunato e disamorato, non dura niente, tutto è impermanente.
E bisogna stare attenti, perché quello che per te oggi è fondamentale, domani lo getterai o lo perderai, quello che tu oggi ami fino allo stremo, domani ti sarà indifferente.
No, non è la morte che spaventa: quella non la conosci perché non sei mai morto.
È quest’inarrestabile alternarsi degli opposti, questo spostarsi del bersaglio in continuazione che disorienta, destabilizza, e rende la vita come una mina vagante, come un vascello fantasma, come una vetta itinerante, come una troia volubile e fatale.
È questa la tragica bellezza della vita.
Non fai in tempo a essere giovane e sei già vecchio.
Non fai in tempo ad amare e sei già disamorato.
Non fai in tempo a spassartela e sei già triste.
Non fai in tempo a vivere e sei già morto.
Non fai in tempo a essere coraggioso e sei già vile.
Non fai in tempo ad avere successo e sei già fallito.
Non fai in tempo a far l’amore e ti sei già tirato su le braghe.
È perché c’è un eterno scontro tra bellezza e bruttezza, tra tragedia e commedia.
E il colpo di scena è sempre il dolore, la perdita, o l’estasi o il piacere.
Ma non durano.
Siate dunque nomadi, e non aggrappatevi a nulla e nessuno in modo totale.
Perché quando sparirà quest’appiglio, vi ritroverete allo specchio di voi stessi bestemmiando delusi:
siate elastici e sciolti.
Settanta, ottant’anni sono un sospiro nell’eternità.
Tanto vale accettare la danza e ballare.
Ma con stile.
Con eleganza.
Con ironia.
Con strazio struggente.
Con amore accelerato.
Un tango negligente e avventuroso a passo double, sotto un cielo pieno di pioggia e sole in una città impazzita, smarrita tra le stelle.
Con dentro l’anima una disperata voglia di vivere.
Di vivere perdutamente.

[continua]


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