Il cappello di Panama

di

Alessandra Crabbia


Alessandra Crabbia - Il cappello di Panama
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14X20,5 - pp. 98 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6037-8354

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In copertina: «Gente de mar» opera di Alessandra Crabbia
Nel retrocopertina: «El sombrero de Panama», (Foto di Luis Cresis Ramirez)


Prefazione

Il cappello di Panama di Alessandra Crabbia è un romanzo viscerale. Racconta la vita d’una donna che cerca di farsi amare in ogni modo possibile, l’amaro calice della verità, il fiato in gola mentre si percorre il sentiero della rinascita, la passione ardente d’una donna che scrive e dipinge con il proprio sangue.
Quando le lacrime sono già state tutte versate, quando rimane solo il corpo “disertato da ogni stella”, quando s’odono soltanto il grido d’amore e le “sacre armonie” d’un poeta non resta che scrivere e illuminare dipinti con arcobaleni… vivere come fosse una magia, un incantesimo che non lascia scampo.
Alessandra Crabbia e Venusta Mendoza, la protagonista de “Il cappello di Panama”, diventano la stessa donna, si fondono in un viscerale grido innalzato al cielo stellato, sempre sia rimasta qualche stella in quel blu maledetto, bevono insieme l’Amore amaro, scrivono libri che nessuno capisce, vendono quadri solari a prezzi stracciati, leggono i tarocchi per tirare avanti, bruciano la vita come due grandi artiste.
Venusta porta sempre con sé il suo cappello di panama bianco, dopo aver amato Marcus per tanti anni, senza chiedere mai nulla in cambio, dopo aver combattuto le ombre della notte, dopo aver oltrepassato il regno della solitudine, si ritrova nella “Casa dei miracoli” per cercare di “tornare a vivere”: libera di non dover più rispondere alle esigenze d’un uomo, di non dover sopportare più i lunghi silenzi di un “infelice cronico”, quel continuo patire senza l’amore in cambio.
Dopo le tempeste e gli abissi, le tristezze e le ubriacature, cercare di “provare a vivere”perchè nella vita si rischia sempre qualcosa, perchè l’amore è un volo acrobatico molto rischioso eppure solo l’amore “tiene vivi e fa miracoli”.
Le parole di Alessandra Crabbia aprono squarci profondi nell’anima e vi estraggono tutto ciò che si nasconde nelle zone più segrete, più inaccessibili dell’essere umano: quasi a “sbranare” i sentimenti, il flusso delle emozioni, le esperienze vissute, i ricordi brucianti di un’artista che vive pienamente la sua condizione.
“La morte è una puttana come la altre” diceva Hemingway ma anche la vita non scherza affatto. La vita è luminosa e dolorosa, può essere dolce come il miele e amara come il più amaro veleno: può regalare momenti d’estasi o ubriacare fino alla vertigine immane, fino a perdersi nei suoi giorni.
“Il cappello di Panama” di Alessandra Crabbia è un romanzo d’una bellezza crudele, le parole attinte dall’universo magico conducono alle rivelazioni dei segni, ai colori distillati dal sangue caldo d’una donna passionale. Un libro del cielo e dell’inferno, sprigionato dalla genialità di un’artista, che accompagna inesorabilmente alla considerazione finale “l’unico modo di capire è divorare la vita” perchè bisogna soffrire per capire profondamente la propria essenza: essere “follemente felici” e “bastardamente carnali”.

Massimo Barile


Il cappello di Panama

Dedico questo libro a Fiorella Poloni,
l’unica donna che conosce la compassione,
l’unica donna che ogni uomo dovrebbe adorare.


Ringrazio Fiorella, il mio bellissimo fiore compassionevole, le mie editrici Antonella e Adriana Montefameglio, i dottori Paola Abrusci, Natalino Filippin, Oscar Miotti, Roberta Bolzonella, Giuseppe Salce, e soprattutto Luca Zago. Ringrazio il Serat, e Clara Biasio, l’angelo oscuro.
Grazie ancora con tutto il cuore a coloro che più ho amato, Marta e Umberto.
E ringrazio tanto Roberto Bortolazzo, alias Robinho, che ama l’Afghanistan, l’unico ragioniere con i capelli lunghi come i miei, per la sua bontà. E Andreina, e Vincenza e Mery e Lorella e Claudia. E due baci a Asia e Pascal, i miei adorati cani.


«La vita è il sogno di un Dio ubriaco».
(Calderòn de La Barca)

«Il vero cianuro è la solitudine».
(Clara Biasio)

«Il dolore unisce chi si ama
e divide chi non si ama veramente».
(Dott. Luca Zago)

“…Quando alla fine si alzò, sentì una specie di fame,
quella fame che può assalire solo chi beve.
Si tratta di una forma speciale di bramosia
(ma non di qualcosa da mangiare)
che dura solamente pochi secondi e subito si placa,
non appena chi l’avverte s’immagina
una precisa bevanda che sembra di proprio gusto
in quel preciso momento».
(Joseph Roth, “La leggenda del santo bevitore”).

«Vi sono vizi che si mantengono in noi
solo perché si appoggiano ad altri dolori.
Togliendo il tronco, si portano via anche i rami».
(Blaise Pascal, “Pensieri”)

«Quando tutti ti hanno abbandonato tranne Dio,
e riesci a sorridere, sei un illuminato».
(Alessandra Crabbia, “Manuale del disperato”)


Madrigale forsennato

Alicante, sì, era lontana.
Entrava una lama acuminata di sporca luce esausta
da una finestra stanca e rotta.
E le lacrime erano state tutte piante,
le bottiglie tutte bevute, i morti tutti seppelliti,
le tele tutte riempite e consumate,
gli amanti tutti fuggiti.
Ero solo un corpo disertato da ogni stella,
macilento e steso per gli affanni del troppo bere
per scordare d’esser nato,
d’avere braccia e mani e viscere e cuore e amore spezzato.
Nulla c’era per ricordarmi d’esser uomo.

Eppure,
in tutto quel rovinoso decadere,
volavano questi versi come magici serpenti piumati nel buio della stanza,
cantava ancora il mio sangue indio sorvolando il Paranà.

E anche se tutto era dolore,
e anche se nel 213 sarei stato polvere e chiodi di bara,
feci esplodere ugualmente questo madrigale forsennato
che attraversava preistorici buchi neri universali,
lo feci splendere per tutti quelli che m’ascoltano ora,
per tutti quelli che assetati da lontano udirono nel futuro
il mio rantolo ubriaco d’amore
che attraversava il tempo dannato
e l’amore tradito
e le sacre armonie
di un poeta solo.

(“Miele e cianuro” di Alessandra Crabbia)


Premessa

Dio, dio, la luce, la luce che s’infiltra dalle tapparelle, la luce buia, dolorosa, infame, velenosa, spaventosa, e il cuore che comincia a battere sconnesso, senza pietà, mentre l’angoscia si adagia sulle mani tremanti e sul cervello che precipita in una sete oscura inarrestabile, e nessuno ti salva, no no, nessuno ti abbraccia o ti dà una pacca sulla spalla e via, e il Sudamerica e le sue mangrovie sciolte al vento selvaggio è lontano, è ancora giorno mio dio, e alzarsi e affrontare tutta quell’angoscia e tutto quel morire a poco a poco è implacabile: e guardi sotto il letto se è rimasto qualcosa nella bottiglia nascosta in malo modo la sera prima, la afferri e t’illumini, ma no, cristo, è vuota, e sei come un bambino che disperato cerca la madre e non la trova, ma forse, sì, nell’armadio, sotto i maglioni, qualche resto di vino dev’esser pur rimasto, e ti alzi rapido invocando quel porco di Bacco, il tuo demone inestinguibile, e butti fuori tutti i maglioni tremando, ansimando, col cuore che scoppia, e niente, anche Bacco ti ha fregato.Ti siedi per terra, cerchi di ricordare i tuoi cento nascondigli, perché hai una furbizia più che diabolica nell’escogitarli, e non sempre di mattina hai abbastanza memoria da ricordarli tutti, ma la sete oscura aiuta la memoria persa, perché è la tua maledizione disperata. Un lampo nel cervello e corri nel cesso e apri il cesto pieno di biancheria sporca, e come in un miracolo esaltante, la vedi, la vedi, la vedi, la bottiglia assassina, e piangi e ridi, cristo, sei salvo e un’ondata di maligna felicità ti pervade, perché hai bisogno di quel calore dannato nelle budella, per far tacere la disperazione, il dolore, la vergogna, la paura, e i tuoi morti, e stappi con mano tremante, e bevi con attenzione, perché potresti vomitare, e sarebbe tutta buona roba persa, e quando passa il conato, bevi finché la panza è calda e la paura si allontana, e una strana perversa allegria menefreghista e vigliacca ti scorre nelle vene tossiche, e la luce del giorno di colpo diventa buona e sorniona. Sei salvo, sei salvo! Domani smetto, giuro che smetto, mi metto a letto a sudare, a cagarmi addosso e a tremare e a vomitare finché mi passa la scimmia dell’alcol, domani giuro che smetto, perché posso smettere quando voglio: sono una roccia io.
Ma una voce che scacci infastidita,ti dice che non smetterai domani, perché la vita è troppo puttana e il terrore troppo lacerante, che non ce la farai, non ce la farai, che finirai di nuovo nell’ospedale dei matti, e quando ne uscirai, tempo santo e beato di quindici giorni, un pomeriggio di pioggia, passeggiando per le corsie del supermercato per trovare il dentifricio antiplacca, l’occhio cadrà sulle bottiglie di amarone, e la sete oscura, la troia di Bacco, sussurrerà sensuale: “Un bicchiere, ne berrai un bicchiere solo, che male può farti, ora che sei pulito?” E tu, baccante addolorato, tu, il dionisiaco, tu, pieno di ferite morali come un tacchino dopo il pranzo di natale, ascolti la voce suadente e compri la bottiglia.
E di nuovo la mattina arriva, dio dio aiutami, questa luce mi uccide, ho il sangue avvelenato, chissà se è rimasta una bottiglia nel portaombrelli…
E piangi e sprofondi nel tuo tunnel tremante e assetato.
Pietà, pietà signore, pietà per coloro che si struggono e fuggono e cadono e piangono e impazziscono, per tutte queste dolenti creature assetate di morte.
E ora scrivo quel che è stato, in una bella mattina di ottobre, piena di alberi fiammeggianti di foglie, ocra è la vita, giallo e profondo il cielo, e Bacco è lontano anche se la battaglia con lui non si può mai giurare che sia vinta. Scrivo per lei, perché le creature ancora assetate gliel’avevano chiesto, e Venus le amava, perché sono così dolci e fragili e pure e selvagge, e lei sapeva cosa provano fin nelle fibre più profonde della carne, sapeva abbracciarle quando piangono, e sapeva tirare di boxe quando vogliono sfogarsi, e sapeva il loro dolore, la loro infanzia devastata, i loro corpi macilenti, le loro disperazioni. Venus regala a questi compagni un po’ di speranza.
E vi amava amici miei, con tutto il calore che vi manca, e vi abbracciava, creature sfinite, perché solo chi è stato come voi, sa cullarvi con delicatezza. E chi non è stato l’amante di Bacco non può comprendere, e noi dottori capiamo fin là, perché beviamo un bicchiere a pasto o un gin quando andiamo ai party dei colleghi o nelle trasferte con amante annessa, quando sfiliamo ai nostri congressi a Sputtarno, o San Cerusico martire, o Cazzarola sul Pirla, o Castel Figheria sul Minchio.
E tu mio Dio, invece di grattarti la barba e di fare un collage con le aureole, libera nos a malo, perché anche questi sono i tuoi santi, i tuoi santi bevitori.


Primo capitolo

L’amore amaro

Io la conoscevo bene, Venusta Mendoza, quella donna strana e scarmigliata e esaltata, sempre con un cappello di panama bianco sgangherato e posato malamente tra le orecchie.
Veniva in analisi da me e taceva, tormentandosi i lunghi capelli neri con le dita.
A volte l’amavo, a volte la odiavo.
Non era mai riuscita a diventare adulta, piangeva quando rideva, e rideva quando piangeva.
Non le riusciva mai di calmarsi, perché divorava la vita senza tregua.
Aveva una faccia da panda, Venus, e un nome antiquato e polveroso ereditato per sfacciata disinvoltura dalla nonna Venusta, grande matriarca col bastone, che guizzava come un cobra sui malcapitati.
Avvertivo sempre una certa somiglianza con lei, una comunione d’anime, ma io, che per professione sono usa ad analizzare tutto, non riuscivo a capirne il motivo, e ogni volta che la vedevo o mi chiamava, cercavo di supportare con la logica quella creatura sbandata dagli occhi selvaggi, a cui era stata diagnosticata una psicosi geniale.
Non sapeva più quanto avesse amato quell’uomo, il suo Marcus. Certo in modo smodato, affranto, faticoso.
L’aveva amato con un senso di appartenenza da orfanella piccola fiammiferaia, l’aveva amato con una stolta devozione da stuoino dove pulirsi i piedi, l’aveva amato senza chiedere nulla, nessuna sicurezza.
Lo temeva come temeva suo padre.
Quando faceva l’amore con lui si sentiva quasi incestuosa. Rimbalzava contro di lui come contro un muro di gomma. Sapete amici, non si può dire che fosse normale.
Sempre stata esaltata, passionale, esplosiva, pronta a salire sull’onda più alta, e a stare in equilibrio folle e frenetico sulla cresta, rischiando il suo cuore, la sua vita, in un poker sgangherato e bluffante in una bisca piena di dolorose ragnatele del passato. Ah, dove c’è un cantore, dove c’è un poeta, l’amore è un volo selvaggio e ineffabile fino all’ultimo respiro.
Ah, là dove si librano le parole e le passioni di un artista, l’eden perduto sprofonda deluso nell’aridità della terra matrigna. Ormai quasi ogni giorno si vergognava di chiedere al suo Marcus: «Mi vuoi bene? Perché non me lo dici mai?» e di vederlo scuotere la testa infastidito senza placare la sua ansia e la sua frustrazione.
Era completamente anaffettivo, e ogni giorno lei si stremava per cercare la sua approvazione, o un gesto affettuoso: non c’era verso, non c’era verso, lui era sempre chiuso nella sua grotta piena di fantasmi, di ambizioni, di paure, di fragili durezze.
Lui era così intelligente e concreto, così bello, macho, impossibile.
Ah, il suo amore, il suo maschio corpo di pantera, i suoi occhi lenti e lontani, le sue mani dure e dolci nell’abbandono! Marcus praticava assiduamente Bacco, Tabacco e Venere, e il gioco era la sua malattia tremante.
Ateo convinto, matematico inconfutabile, e lento suicida a forza di eccessi. Beveva e non era mai ubriaco, solo, distante e silenzioso e sospettoso.
Fumava cento sigarette al giorno, e la tosse terribile mattutina non lo distoglieva dal vizio.
Giocava cifre enormi e perdeva rabbiosamente per poi cercare una rivincita vendicativa che non arrivava mai.
Aveva sempre gli occhi tristi, pensava spesso alla morte, soffriva.
Si annoiava sempre con lei, e evitava molte persone “perché portavano sfiga”, non aveva un solo amico, e il suo isolamento era deliberato, se non per la presenza di Venus, anche se a volte lei si sentiva completamente invisibile.
Era come se non ci fosse, né per lui né per se stessa.

[continua]


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