La peste, quale immagine della corruzione dell’uomo che l’implacabile giustizia divina chiama al rendiconto.
È questo l’atteggiamento che, di fronte al dilagare del flagello, assume il cardinale Carlo Borromeo.
Anche nell’opera di Manzoni la peste è simbolo della corruzione completa, che non risparmia niente e nessuno.
Il tema della giustizia divina, chiaramente percepibile nel romanzo, è però condito di misericordia.
Tutto accade sotto il segno della Provvidenza: anche il male estremo, contro il quale nulla possono gli uomini.
Protagonista dell’avvenimento è dunque la Provvidenza che, pur avvalendosi della “gran scopa” del morbo, si assume il compito di salvare individui e società.
Del tutto in opposizione la testimonianza di Montaigne.
La peste non è il grimaldello della giustizia divina, ma nemmeno il mezzo cui la Provvidenza ricorre per condurre a termine i propri misericordiosi disegni.
La peste è, semplicemente, una malattia: vale a dire un fenomeno naturale, da Dio stabilito secondo un ordine imperscrutabile, comune a tutto ciò che vive.
Non ha quindi senso dire “che Dio teme, ama, punisce esprimendo cose immortali in termini mortali. Ma tutte queste agitazioni non si trovano in Dio secondo la nostra forma, né noi possiamo immaginarle secondo la sua.”(II/12)
Inaccessibile e irraggiungibile il Dio di Montaigne – lo sarà con maggior rigore filosofico quello di Spinoza – non interviene per modificare le leggi da lui stabilite.
La peste rimane dunque un tragico fatto naturale. Gli uomini, che lo affrontano con consapevole semplicità, ne sono gli assoluti protagonisti.
La peste di San Carlo – Milano 1576
La prima pestilenza di cui si hanno precise notizie fu quella che, endemica in certe zone dell’Asia, viaggiando lungo le rotte delle navi genovesi cariche di pellicce, spezie, cereali – ma con le stive infestate dai topi, portatori del contagio – tra il 1347 e il 1350 dilagò dal Nord Africa alle isole del Mediterraneo occidentale; risalì dalle città costiere italiane all’interno della penisola; valicò le Alpi e si diffuse a macchia d’olio nel resto d’Europa.
Milano fu miracolosamente preservata dalla “morte nera” forse per l’isolamento politico, commerciale e militare instaurato in quegli anni dai Visconti, signori della città.
L’epidemia, scoppiata a Firenze, ebbe in Giovanni Boccaccio un testimone d’eccezione.
Essa non è però la protagonista del Decamerone, ma il pretesto di cui Boccaccio si giova per darci un vivido quadro della società del suo tempo.
Della peste del 1576, che invece imperverserà per lunghi mesi a Milano, passata alla storia come peste di San Carlo, dal nome del cardinal Borromeo presule della città, abbiamo la cronaca di due testimoni: il cappuccino Paolo Bellintano da Salò e lo stesso cardinale Borromeo.
Il primo, Fra’ Paolo, reduce dai lazzaretti di Marsiglia e diretto a Venezia, transita da Milano e decide di fermarvisi perché – gli viene detto – maggiore è qui il bisogno dell’opera sua.
Sollecitato dal cardinale in persona, il senato cittadino concede al frate legittima e piena potestà su tutti gli appestati e sospetti di peste dell’intera città.
È quindi al lazzaretto, luogo di segregazione e cura dei malati e dei sospetti tali, appena fuori dei bastioni della città, che il frate si trasferisce la mattina del 29 settembre 1576.
Il resoconto di quel volontariato lo leggiamo nel ricordo agiografico di Carlo Borromeo che Fra’ Paolo comporrà, qualche anno dopo, in occasione della morte del cardinale.
È un racconto, il suo, in cui spirito di carità cristiana e spietata intransigenza sembrano darsi la mano.
Fra’ Paolo amministra imparzialmente sacramenti e tortura; comunioni e tratti di corda, penitenze e colpi di flagello, con il corollario di qualche rimedio empirico che egli puntualmente elenca:
bere al mattino un cordiale di acqua di rose o di cedro, come usa a Napoli o sulla riviera del Garda;
portare al collo una palla odorifera;
stare alla larga da tutto e da tutti;
non dormire mai di giorno;
applicare sui bubboni degli empiastri di malva mista a grasso di porco, bulbi di gigli bianchi e lumache tritate.
Tuttavia, una volta assaliti dal morbo non c’è empiastro che possa servire.
Sola risorsa è l’osservanza scrupolosa di precetti morali, soprattutto la pratica della castità, poiché nulla è più pestifero del commercio con le donne.
Ne è prova la vicenda di un certo Bernardino di Porta Romana che si era messo al servizio degli appestati; e che niente ebbe a temere finché, tentato dal demonio, consumò un rapporto carnale con una giovane ricoverata al lazzaretto. Subito la peste lo morse.
La donna venne punita a suon di frusta, ma il castigo nulla valse al povero Bernardino che, a sua volta, dovette soccombere al male.
Dai resoconti del frate la vita grama dei ricoverati del lazzaretto appare angustiata da regole rigidissime e crudeli che egli fa puntualmente rispettare; e la cui infrazione è severamente sanzionata da due ministri di giustizia, mandati dal cardinale per eseguire le punizioni.
Il lazzaretto, luogo di sofferenza e di morte, finisce con il configurarsi come la sede della violenza più dura e delle sopraffazioni.
Il male che attanaglia il corpo è chiaro indizio di un più profondo male dell’anima, e richiede espiazione.
Ogni distrazione dev’essere bandita con la minaccia di pene gravissime: sono proibiti balli, giochi e festini.
L’impegno prioritario di sanare le anime si traduce in episodi di tetra violenza.
Fra’ Paolo ricorda che al lazzaretto, incuranti dei divieti, i malati avevano organizzato un ballo.
Il confratello Andrea, appena arrivato dalla città con il suo carico di morti, sbalordito da tanta audacia e peccaminosa noncuranza vuole guastar loro la festa.
Bussa: “Chi è là?” interroga una voce.
“Gente che vuol ballare”.
La porta è subito aperta e il cadavere di una vecchia viene scaricato in mezzo ai presenti.
“Fate ballare anche questa. Avete la morte in bocca e ve la spassate nella frenesia dei bagordi che offendono Dio”.
Poi Fra’ Andrea se ne va tra il generale sbigottimento.
Intanto, nella città mezzo spopolata, dieci birri – sono i famigerati monatti, infermieri e becchini degli appestati – hanno il compito di tenere a freno i “discoli”; e nel farlo saccheggiano a loro volta le case deserte, derubano i malati, depredano i morti.
Senza l’aiuto dei birri – dichiara tuttavia Fra’ Paolo – la città si sarebbe trasformata in una spelonca di ladri.
Lo stesso attivismo assistenziale è ravvisabile, misto a impietoso rigore, nella invettiva contro Milano del secondo testimone oculare della tragedia: il cardinale Carlo Borromeo.
La sua apostrofe rievoca lo splendore e l’opulenza della città prima del flagello, ne sanziona la corruzione.
Novello Daniele, egli ne predice e giustifica il castigo.
Milano, nuova Babilonia, simile al grande albero che Nabucodonosor aveva veduto in sogno. Un albero posto al centro della terra, alto e frondoso, con i rami che si stendevano fino ai confini dell’universo. Uomini e animali si nutrivano della sua abbondanza.
[continua]